Radicalismo islamista
 cosa è, cosa non è 

L’islamismo radicale è un fenomeno politico e, al medesimo tempo, ideologico destinato a durare nel tempo. Nella sua autonomia storica, in quanto prodotto della nostra contemporaneità, si intreccia tuttavia con le dinamiche che nella stessa storia europea, e non solo, hanno riguardato essenzialmente i movimenti fascisti. È illusorio, in una sorta di malintesa par condicio, cercare nella destra liberale così come nella sinistra democratica europea, altre analogie. Poiché l’islamismo – in quanto movimento totalitario – trova nel rifiuto dei diritti dell’individuo e in una visione radicalmente avversa a ogni forma di emancipazione personale e collettiva, il suo massimo fondamento. Posta questa premessa, il ripetuto ricorso pubblicistico ad espressioni come «islamofascismo», risponde più ad esigenze di pur legittima polemica quotidiana che non, piuttosto, ad un’analisi e poi ad una risposta articolata al fenomeno in se stesso. Il problema non è quello di etichettare bensì di dare una risposta politica. La qual cosa implica una logica di lungo periodo, che piaccia o meno, basata quindi sulla comprensione di ciò che accade e non sulla mera reazione alle provocazione. Le quali, per intendersi, sono invece il terreno sui cui prolifera, raccogliendo proseliti.
L’islamismo radicale non è un soggetto unitario (un’unica organizzazione, destinata a rimanere nel tempo e quindi a riprodursi) bensì un insieme di soggetti collettivi (ossia movimenti), capaci di adattarsi alle circostanze date, pertanto tra di loro in permanente conflitto. Ciò non costituisce un suo elemento di debolezza bensì di forza. Poiché si inserisce nelle pieghe della contemporaneità, sfruttandone a pieno beneficio le contraddizioni, le difficoltà come anche le opportunità. Da questo punto di vista, il radicalismo non è mai un repertorio del passato bensì una manifestazioni del presente, ovvero del cambiamento, del mutamento, soprattutto laddove questo erode le basi di legittimità degli Stati nazionali e con essi, in particolare modo nel Medio Oriente, della sovranità dinastiche e dei gruppi di potere repubblicani.
L’islamismo radicale non ha mai un’unica cabina di regia bensì una pluralità di soggetti che ambiscono ad utilizzare, a proprio beneficio, le sue azioni e le condotte che, di volta in volta, fa proprie. Anche questo è un suo elemento di forza, non di debolezza. Non per questo i movimenti militanti (armati e non che siano) risultano essere etero-diretti, ossia dipendenti necessariamente da uno o più registi occulti. Più semplicemente, sono strumenti e veicoli di trasformazione della politica in società che – perlopiù – soffrono della condizione di essere messe ai margini dei benefici derivanti dai processi di globalizzazione. In tale situazione riposa la medesima ragione per cui i movimenti islamizzanti possono interessare, quindi coinvolgere, parti significative delle comunità che vivono nei paesi a sviluppo avanzato ma non potranno mai attecchirvi del tutto.
L’islamismo radicale ha occupato non solo gli spazi di azione e rappresentanza dei movimenti laici, implosi durante e dopo il tramonto del conflitto bipolare tra Occidente ed Oriente (in particolare dal 1989 in poi) ma anche della sopravveniente crisi degli Stati nazionali, soprattutto in Medio Oriente, in quanto prodotto – molto spesso – dei medesimi accordi coloniali e post-coloniali. Come tale, nella sua pluralità di manifestazioni, trova la sua forza nel mettere perennemente in discussione qualsiasi forma di sovranità che non sia la propria. Una sovranità tanto mobile, tale poiché legata non alla stabilità ma alla movimentazione continua dei conflitti di cui è parte, e al medesimo tempo immaginifica, in quanto legata al ricorso a simbolismi galvanizzanti, tali poiché capaci di intercettare fantasia come anche bisogni di collettività in difficoltà.
L’islamismo radicale non corrisponde all’Islam in quanto tale. Non ne costituisce l’obbligato esito. Non è il prodotto di un «conflitto di civiltà» ma di un’evoluzione conflittuale dei rapporti intrinseci ai processi di globalizzazione. Non è il “ritorno di ciò che fu” (cosa a cui finge di ambire, ingannando i suoi interlocutori) bensì una nuova forma della politica che, dagli anni Novanta in poi, si è andata affermando. In Oriente come anche in Occidente. Celebra, a modo suo, la fine della politica stessa come esercizio laico e secolarizzato, nonché il suo rigenerarsi essenzialmente come dimensione identitaria e, a tratti, fondamentista: questione – beninteso – che riguarda anche le nostre società, sia pure in forme e con esiti diversi.
È illusorio attribuire all’islamismo radicale la rappresentanza del disagio delle classi subalterne. Si tratta, nel quel caso, della ripetizione di un fraintendimento: quello per cui ogni forma e manifestazione di opposizione abbia in sé una legittimità che, come tale, vada quindi fatta propria. In quanto promanerebbe dalla voce dolente di chi non ha voce. Un’adesione per empatia, prima ancora che per comprensione. La premessa di questa impostazione di fondo è che ogni potere sia, di per sé, “malvagio”. A prescindere. Ma qualsivoglia sistema di potere incorpora in se stesso, al medesimo tempo, diritto così come arbitrio. È semmai dalla prevalenza del primo rispetto al secondo che si misura la preferibilità di un sistema di governo delle società. Come insieme di movimenti, a partire dagli anni Settanta – ovvero con il khomeinismo in Iran – il radicalismo si candida invece da subito ad essere il soggetto violento, ma decisivo, dell’azione politica di una parte consistente delle classi medie. Il cui status e ruolo sociali già da allora erano erosi da quei mutamenti presentati, anche nelle società mediorientali, come obbligati transiti verso la «modernizzazione».
Al pari di significativi aspetti del fascismo europeo dei tempi che furono, per comprendere l’islamismo nelle sue manifestazioni in questi ultimi quarant’anni bisogna quindi indagare, al medesimo tempo, il declino delle democrazie (soprattutto di quelle “recitative”, tali in quanto non basate su un’effettiva inclusione della maggioranza degli individui) così come l’esplosiva alleanza che, in certi frangenti storici, si genera tra ciò che resta di classi medie declinanti e un diffuso sottoproletariato alla ricerca di rivalse e di rappresentanza, quest’ultimo prodotto dell’esclusione che le modernizzazioni producono non solo come fenomeno parallelo bensì in quanto vero e proprio esito di un’evoluzione selettiva, che premia certuni ma esclude molti altri.
Ogni forma di movimento radicalizzante trova la sua legittimazione non solo nell’ordito ideologico, quindi nella trama delle suggestioni che rimandano – appellandola e mobilitandola – all’immaginazione individuale così come a quella collettiva, ma soprattutto nella capacità di garantire sistemi di garanzie sociali, ossia concreti benefici materiali. Qualsiasi azione contro il radicalismo deve partire anche da questa consapevolezza, altrimenti rischia di ridursi ad un pedagogismo delle buone intenzioni.
Il radicalismo islamico non è una ribellione contro la modernità – di cui invece ne fa propri molti aspetti, a partire da quelli tecnologici – bensì una forma di oppressione degli individui e delle collettività, presentata come “liberazione”. In questo, ovvero nella sua estrema povertà e schematicità, trova al medesimo tempo il fascino seducente per molti astanti e il fittizio rigore di una dottrina che si adatta alle condizioni date, risultando facilmente fruibile da una pluralità di soggetti alla ricerca di una ragione per comprendere un’esistenza, la propria, altrimenti al medesimo tempo indecifrabile così come aridamente misera. Si presenta quindi come una forma di risarcimento rispetto alle pene del presente. Parla di martirologia al pari di eroismo, vellicando le fantasia (e i fantasmi) delle collettività. Il suo vero asse di riferimento è la ripetizione di un moralismo di senso comune, a partire dalla sessuofobia al pari dell’orrore per il pluralismo civile, morale e culturale, presentati invece come “perversione contro la natura umana”. Non è mai un discorso su dio ma sulla comunità militante (tale poiché composta da credenti e combattenti) che si fa divinità di se stessa. L’uomo è spesso sedotto dalla sua immagine riflessa nel discorso sull’eternità.
Da ultimo, è sempre bene ricordarsi che le cose del mondo, ancora più complicate della nostra stessa immaginazione, richiedono di essere studiate, non giudicate aprioristicamente. Altrimenti si rischia di essere sconfitti già in partenza.

Claudio Vercelli