Chanukkah, le donne
e il 25 Aprile
La simbologia maschile-femminile, che è presente in tante forme nella tradizione ebraica, assume connotati particolari nei giorni sacri e nelle feste, partendo dai simboli degli scritti profetici e dalle interpretazioni tradizionali del Cantico dei Cantici. Si pensi a Shavuòt, nel quale la rivelazione su Sinai è considerata come un matrimonio sacro tra il Signore (al maschile) e la comunità di Israele (al femminile) e la Torà rappresenta la ketubbà, il contratto nuziale. O allo Shabbàt che iniziamo con il canto mistico del Lekhà Dodì, che inverte i ruoli del matrimonio sacro: ora Israele è lo sposo che va incontro allo Shabbàt che è la sposa. E ancora al Rosh Chodesh, il Capomese, basato tutto sulla simbologia lunare e la sua identificazione al femminile.
Il ruolo della donna è però molto più evidente in altre feste ebraiche dove si dice che “anche loro parteciparono al miracolo” e questo fatto impone loro l’osservanza di alcune regole, in deroga al principio generale per il quale le donne non sono obbligate a osservare le regole legate a tempi precisi. È il caso di Pèsach (quattro bicchieri del Sèder), Purìm (lettura della Meghillà) e Chanukkà (accensione dei lumi). Il ruolo del miracolo è duplice, nel senso che furono salvate miracolosamente da un pericolo e furono attive promotrici della salvezza loro e di quella del popolo ebraico. Il rischio subìto e l’attivismo esercitato emergono dagli scritti canonici e sono sottolineati dai midrashim. Per Pesach si pensi al racconto dei primi due capitoli di Shemot, in cui le eroine sono la figlia del Faraone, le levatrici, Yochèved e Miriam e il midrash racconta come furono le donne a convincere i mariti riluttanti a procreare, malgrado le sofferenze della schiavitù. Per Purìm c’è la storia di Ester. Per Chanukkà, che è una festa di tarda istituzione senza scritti canonici, le fonti sono disperse in testi in greco e midrashim che mescolano vari temi: il martirio, il coraggio di uccidere il tiranno, l’opposizione allo ius primae noctis. Donne martiri si sacrificarono per osservare gli obblighi, come la anonima donna vedova che sfidò il potere greco per fare la milà al figlio (in Meghillat Antiochos) o Miriam bat Tanchùm (anonima in TB Ghittin 57b), la madre che vide morire sette figli e poi si tolse la vita per non trasgredire il divieto di idolatria. La storia di Giuditta che uccide e taglia la testa a Oloferne è raccontata nel libro di Giuditta, che non è mai entrato nel canone biblico ebraico (accettato invece da quello cattolico), e viene ripresa e rielaborata in midrashim tardi: spostando il racconto di qualche secolo, Oloferne, da generale assiro babilonese diventa un anonimo generale greco, e Giuditta, come la biblica Yael, gli dà del latte per calmarlo; nei midrashim i motivi della rivolta femminile sono il rifiuto di sottoporsi all’onta di essere possedute dal tafsàr, il capo dei greci invasori; la donna coraggiosa è la sorella di Giuda Maccabeo o Yehudit la figlia di Yochannàn il gran sacerdote. Nelle fonti tradizionali ebraiche c’è una certa confusione tra nomi e fatti, ma la costante indiscussa è l’eroismo femminile e il ruolo di primo piano nel promuovere il processo di liberazione.
Tutti questi dati rendono particolarmente care e sentite a molte donne ebree la partecipazione e la celebrazione di queste feste. In tempi recenti di sensibilità femminista la sottolineatura al femminile delle storie fondanti è presa da molte come una rivendicazione e un simbolo politico. È un meccanismo non privo di rischi e di contraddizioni. Perché c’è femminismo e femminismo e se è vero che sono le donne a lottare, non tutti i valori per cui lottano sarebbero condivisi in certe visioni femministe. A Pesach certamente l’opposizione di alcune donne al potere schiavista e stragista declinato al maschile va bene per tutte le femministe, ma quanto si parla della difesa della maternità e del ruolo procreativo della donna forse non tutte sarebbero d’accordo. A Purìm il ruolo di eroina se lo contendono due donne, la prima delle quali, Washtì, potrebbe divenire icona femminista per il suo rifiuto, pagato a caro prezzo, di sottostare ai capricci erotici del marito ubriaco. I Maestri hanno lavorato molto per smontare questo mito, presentando Washtì come una principessa altezzosa erede dei monarchi babilonesi sconfitti, in conflitto dinastico con un marito che considera un parvenu, e anch’essa dissoluta e immorale, che non esita per i suoi capricci ad esporre le donne ebree alla stessa esibizione sessuale che lei negherà al marito. Resta l’altra eroina, Ester, di cui si ammira il coraggio, ma che per salvare la sua comunità accetta, senza poterlo scardinare, un potere repressivo e assai maschilista.
Per quanto riguarda Chanukkà, non si può trascurare la presenza di un’altra icona femminile al contrario, Miriam bat Bilgà. Di lei si racconta (TB Sukkot 56) che discendeva da una nobile famiglia sacerdotale (Bilgà), fece apostasia e sposò un importante ufficiale greco. Quando ci fu la profanazione del Tempio, lei arrivò all’altare dove venivano bruciati i sacrifici e lo percosse con il suo sandalo, gridando: “Lupo, lupo (in greco, volendo paragonare l’altare a un lupo che faceva strage di agnelli), fino a quando distruggerai i soldi di Israele?”. A seguito di questo episodio i Maestri applicarono delle sanzioni contro l’intera famiglia di lei. Episodio evidentemente offensivo e clamoroso, per quanto il rebbe di Lubavitch si sforzi di spiegare la psicologia di questa Miriam, che era mossa nella sua protesta dal tormento di ogni autentica anima ebraica alla vista delle sofferenze del suo popolo e dall’apparente indifferenza divina.
Se ci sono state donne eroiche che hanno avuto un ruolo decisivo nella vittoria contro i greci, si sono state altre donne che stavano dalla parte del nemico. Per cui sarebbe un errore presentare quella storia nella prospettiva semplicistica di donne virtuose contro uomini imbelli, quando la realtà era di donne contro altre donne e altri uomini, di uomini contro altri uomini e altre donne, non in una lotta sessista ma in una guerra civile per la difesa di certi valori. Sarebbe come dire che il 25 Aprile è la festa delle donne, perché le donne hanno partecipato alla Resistenza, il che è vero e va giustamente ricordato, ma all’epoca c’erano anche tante donne fasciste (forse più numerose delle partigiane).
Chanukkà, come altri momenti importanti della vita ebraica, è densa di significati conviventi. È normale che ogni epoca e ogni mentalità si scelga il significato a lei più vicino e congeniale; è un segno della forza e della vitalità dei messaggi antichi. Ma bisogna stare attenti a non esagerare e deformare la prospettiva. Il ricordo di Chanukkà che da sempre ha dovuto bilanciare in equilibrio precario la componente storico-militare-nazionalistica con quella religiosa ha avuto un revival con il primo sionismo che additava l’esempio dei Maccabei che lottavano per l’indipendenza. Sono passati strani messaggi attraverso canali innocenti come quello delle canzoni popolari; chi si ricorda del Mi yemallèl gvuròt Israel…. ? “Chi potrà raccontare le prodezze di Israele”; è la frase iniziale che si basa su un versetto biblico (Salmo 106:2), dove però al posto di Israele c’è il nome di D. Come a dire, è tutto merito nostro; è un merito indiscusso, ma non è mai tutto nostro. Allo stesso modo dell’interpretazione e della rivendicazione politica, quella in chiave femminile e femminista ha qualche fondamento, ma è solo una parte di un tutto più complesso.
Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
(14 dicembre 2020)