Mank, un anticonformista
alla conquista di Hollywood
Nel 1971 la critica cinematografica Pauline Kael annunciò sul New Yorker che Orson Welles non meritava alcun credito per la sceneggiatura di Quarto potere. L’autore era invece Henry J. Mankiewicz, che solo dopo una penosa controversia aveva ottenuto di essere menzionato come coautore. L’articolo di Kael, così lungo e dettagliato da uscire in due puntate, ebbe l’effetto di resuscitare un vecchio vespaio e le polemiche esplosero furibonde. Cinquant’anni dopo il sapore acre di quella storia torna a noi in Mank di David Fincher, con Gary Oldman, Tom Burke e Amanda Seyfried, da qualche giorno su Netflix dopo una distribuzione limitata nelle sale. Il regista, già autore di classici come Seven, Fight Club, Zodiac e Social Network, si basa sulla sceneggiatura scritta dal padre Jack Fincher che ricrea la traiettoria umana e professionale di Mankiewicz a partire dal saggio di Pauline Kael – nel frattempo screditato dagli studiosi e dagli amici di Welles, in primis il regista Peter Bogdanovich.
Il film, girato in uno luminoso bianco e nero, ripercorre in un flashback i travagli che segnarono la genesi di Quarto potere (1941) e gli scontri fra Mankiewicz e Welles dopo l’unico Oscar assegnato al film – quello, neanche a farlo apposta, per la sceneggiatura. A raccontare la storia è lo stesso Mank, che con una gamba in gesso lavora allo script in un ranch isolato con l’aiuto di una segretaria (Lily Colllins) che fra le varie mansioni ha quella di tenerlo lontano dall’alcol. Sul filo del ricordo l’uomo torna all’amicizia con il magnate dell’editoria William Randolph Hearst e con il produttore Louis B. Mayer, alle notti di Hollywood e alla sua straordinaria carriera.
Già critico cinematografico e autore teatrale, Mankiewicz, figlio di ebrei immigrati dalla Germania, è parte di quel rivolo di autori – da William Faulkner a Francis Scott Fitzgerald – che a quel tempo si sposta a Hollywood in cerca di guadagni che la letteratura non garantisce. Come tanti prima e dopo di lui, Mank non trova però la libertà che spera. Il conservatorismo degli studios pone confini precisi alla creatività, gli spunti radicali sono off limits e le frizioni con i pezzi grossi infiniti. Malgrado ciò Quarto potere, ispirato alla vita dello stesso Hearst, rimane uno dei ritratti più corrosivi prodotti dal cinema del sogno americano e del potere manipolatorio dei media.
Mank è il ritratto di uno scrittore dalla produttività prodigiosa, capace di slanci visionari (gli si deve, fra l’altro, la magnifica sequenza del Kansas ne Il mago di Oz), insofferente alle regole e dotato di una profonda umanità. Quando nel film la sua governante rivela che un intero villaggio di ebrei tedeschi è emigrato grazie all’aiuto di Mankiewicz sembra una boutade ma nella realtà lo scrittore sponsorizzò l’ingresso in America per centinaia di ebrei in fuga dalle persecuzioni.
La storia di Mank è alla fine quella dell’eterno attrito fra il potere e il diritto di parola, il conformismo e il pensiero che si ostina controcorrente. Leggervi un rimando all’attualità non è forzato: il vento dell’autoritarismo soffia impetuoso e mai come oggi i poteri di Hollywood sono stati concentrati in così poche mani.
Daniela Gross, Pagine Ebraiche dicembre 2020
(15 dicembre 2020)