Segnalibro – Forse mio padre
Laura Forti è una nota drammaturga, tra le più rappresentate all’estero. Ma è soprattutto una scrittrice formidabile. Già ne aveva dato prova nel suo libro d’esordio, L’acrobata, dedicato alla figura di un cugino che fu eroe dell’opposizione cilena a Pinochet e che pagò quel coraggio con la vita.
Forse mio padre è un libro se possibile ancora più emozionante, che parte da una dolorosa presa di coscienza. La confessione resa dalla madre dell’autrice in punto di morte: l’uomo che l’ha cresciuta non è il suo padre biologico. Un sospetto diventa quindi certezza e l’inizio di un viaggio, fisico e interiore, che la porta a confronto con tutti i risvolti di questo non detto.
Con l’impossibilità di abbracciare il suo (forse) padre, ormai da tempo scomparso, ma anche con l’urgenza ormai diventata improcrastinabile di riempire il vuoto. Gli anni della guerra, le scelte del dopo tra speranze, rimorsi e frustrazioni, il complesso equilibrio tra identità e mondi diversi destinato drammaticamente a infrangersi.
Un libro feroce e schietto. Un libro dal quale è difficile staccare gli occhi.
Ecco com’è andata. Mia madre pochi mesi prima di morire mi ha detto che non ero figlia dell’uomo che mi aveva cresciuta. Era da qualche giorno che ci girava intorno, che insisteva con il solito gioco della paternità, un gioco sfibrante che ha fatto per tutta la vita: lasciarmi intendere velatamente che quello non era il mio vero padre. Buttava lì una parola, un’allusione, e quando chiedevo chiarimenti ritrattava. Mi piacerebbe poter dire che negli ultimi tempi era malata di Alzheimer, che farneticava e non era in sé. Mi piacerebbe giustificarla, nobilitarla con un’improvvisa demenza senile, un ammattimento dovuto all’età e alle medicine. Invece era terribilmente lucida. Lucida e spietata. Alla mia ennesima domanda ha risposto semplicemente no. Quello che avevo sempre creduto essere mio padre in realtà non lo era. La verità le è scivolata fuori all’improvviso per caso, per un riflesso automatico, come un flusso di urina a un incontinente. Per la prima volta mi ha detto di chi ero figlia. Mi ha fatto il tuo nome. E io l’ho ricollegato subito al passato. Eri il fidanzato dei suoi quindici anni, incontrato nella fuga in campagna durante l’occupazione nazista. Di te non avevo mai saputo molto, giusto qualche particolare apparentemente insignificante: che avevi una voglia rossa di vino su una guancia e che lei ti aveva lasciato subito dopo la guerra. Ora però non eri più solo un nome, il dettaglio di una storia leggendaria sentito nei racconti di giovinezza, ma una persona vera, uno che c’era sempre stato, che aveva avuto un’esistenza terrena parallela, legata a doppio filo alla mia: eri il mio vero padre biologico. Mi ha detto che vi siete sentiti tutti i giorni della tua vita, che avevate un appuntamento telefonico fisso. Un vostro rito di riconoscimento: uno squillo a vuoto e dopo qualche minuto la chiamata vera. Il tempo per portare l’apparecchio nella stanza dove lei diceva di andare a riposare nel pomeriggio. In quelle telefonate quotidiane ti raccontava di me, come stavo, che facevo, quanto ero cresciuta, cose così. Mi ha detto che non ti eri mai sposato, che non avevi una famiglia tua, che facevi l’impiegato in provincia. Mi ha anche detto che eri morto all’improvviso, fulminato da un infarto. Un giorno la telefonata non era arrivata. Aveva chiamato a casa e tua sorella le aveva fatto sapere che ti eri accasciato mentre camminavi per strada, finendo disteso per terra. Te n’eri andato nel silenzio in mezzo a estranei, proprio com’eri vissuto. Ormai erano passati tanti anni dalla tua morte. Infine ha detto: non parliamone più adesso, sono stanca. Si è stesa sul letto, ha chiuso gli occhi. Per lei eri un argomento esaurito, concluso. Anche in quell’occasione l’ho protetta. Mi sono accontentata di briciole di spiegazioni invece che metterla alle strette, pretendere, gridarle che mi aveva sempre ingannata. Mi sono censurata, per rispetto alle sue condizioni fisiche. Poi la sua salute è peggiorata, le cose sono degenerate rapidamente. Poco dopo è morta e io mi sono bloccata. Ho bloccato tutto dentro di me, anche il lutto, in una sorta di involucro di rabbia gelida. Tu restavi lì dentro, confuso e incastrato. Sapevo che c’eri ma non ce la facevo ad affrontarti. Rimandavo. Nella tradizione ebraica, quando qualcuno muore vengono coperti tutti gli specchi. Ci sono varie spiegazioni al riguardo, ma è stato solo navigando distrattamente per le pagine di un sito tra il fanatico religioso e il new age, che mi sono imbattuta in questa lettura: lo specchio viene coperto perché la persona che vi passa davanti riflettendosi non veda alle sue spalle l’immagine di qualche demone o spirito malvagio che vaga per casa attratto dalla morte. Quando qualcuno muore, spiegava l’articolo, gli spiriti arrivano a circondare lo scomparso richiamati dal vuoto che si è creato, per sostituirlo, per prendere il suo posto. Ma era stata soprattutto la conclusione a colpirmi, il momento in cui l’autore dava una sua interpretazione sottile e raffinata, quasi psicoanalitica dell’usanza, che mai mi sarei aspettata di trovare in un contesto del genere. Non ci si deve guardare allo specchio perché quando scompare una persona a noi vicina non è ancora giunto il momento di vedere il demone. L’incontro con la nostra parte oscura, con i conti che abbiamo in sospeso, dovrà avvenire in seguito, in un tempo successivo. Io ho rimandato di anni questo momento. Si può dire che questo libro per me rappresenti l’atto di scoprire finalmente lo specchio. Credo di avere trovato il coraggio di farlo quando ho capito che non ero sola, avevo la scrittura. Potevo far uscire questa storia dalla cripta privata dove era rimasta finora inaccessibile e farla diventare universale. Potevo compiere un atto creativo, trasformare le figure di questa complicata vicenda familiare in personaggi in cui forse perfino altri si potevano identificare. Potevo liberarmene. Così scrivendo elaboro tre lutti. Per la morte di mia madre. Per te, che non ho mai conosciuto. E per la mia vita di figlia che non ha saputo. Per il tempo che non abbiamo potuto trascorrere insieme e che non potremo mai riprenderci.
Laura Forti, Forse mio padre – Giuntina
(15 dicembre 2020)