Un pensiero controcorrente

Gli accordi che si stanno sviluppando tra Israele e diversi Paesi arabi indubbiamente aprono nuove prospettive di rapporti e collaborazione che, come da più parti sottolineato, possono modificare sostanzialmente il quadro politico del Medio Oriente. Tuttavia, in questo clima di euforia generale, a me viene un pensiero forse un po’ controcorrente. Al di là di tutti gli aspetti politici ed economici, questi accordi coinvolgono sentimenti ed emozioni non da poco, per Israele significa il venir meno, da parte di una significativa componente del mondo arabo, di quel radicale ostracismo che da sempre ne rifiutava l’esistenza, è come un muraglione che viene abbattuto. Vogliamo dire che è un evento per certi versi paragonabile all’esperienza dell’uscita dal ghetto delle comunità ebraiche? Anche allora fu l’ebbrezza di riconoscimenti, di attività e potenzialità fino a quel momento impensabili. Sappiamo quale fu – prima – il costo interno, in termini di assimilazione ad un mondo che appariva quanto mai affascinante e coinvolgente – poi – quali furono gli effetti della presenza ebraica così massiccia in tutti i campi, concessa da leggi e da istituzioni più o meno liberali ma tutt’altro che digerita dalle masse, sul diffondersi dell’antisemitismo, fino alle tragiche conseguenze. Naturalmente il contesto politico, sociale e religioso è oggi del tutto diverso, tuttavia penso che la storia qualche cautela ce la debba insegnare, impegnandoci a confrontarci con le nuove aperture con senso di responsabilità e di consapevolezza delle potenzialità e dei rischi, all’interno e dall’esterno del mondo ebraico. Forse però c’è qualcosa di più profondamente preoccupante; si notano in questi giorni sui social le immagini di cerimonie ebraiche a Dubai, si leggono articoli che vagheggiano di un possibile rifiorire di comunità ebraiche in Paesi arabi, tutto questo non mi entusiasma affatto. Secondo me rappresenterebbe un passo indietro nella storia ebraica, perché una cosa è salvare le comunità dall’estinzione per assimilazione e proteggerle dal ritorno dell’antisemitismo, anche se si comprende bene l’emozione di poter tornare liberamente a visitare i luoghi che conservano memorie delle antiche comunità ebraiche e ricordi di vita personali e familiari; tutt’altra cosa invece incoraggiare il formarsi di nuove diaspore o il ritorno in forma stabile a luoghi che appartengono al passato della nostra storia. Sarebbero deviazioni con molti punti oscuri rispetto al percorso, di cui da oltre settant’anni siamo testimoni e partecipi, che sempre più porta il popolo ebraico verso lo Stato d’Israele.
Penso invece che queste aperture possano rappresentare un’opportunità proprio dal punto di vista del futuro del popolo ebraico, nella misura in cui Israele sappia confrontarsi con i Paesi arabi – e più in generale con il mondo contemporaneo – non solo rappresentando progetti di sviluppo economico e nuove tecnologie, ma anche con una propria specifica identità, cercando di non imitare modelli estranei ma, al contrario inserendo le nuove prospettive di attività, di lavoro, di rapporti sociali, di conoscenze scientifiche e applicazioni, in un quadro di vita e di valori ebraici; questo significa anche, forse innanzitutto, fare attenzione a non considerare i risultati straordinari ottenuti e i possibili ulteriori sviluppi nella prospettiva orgogliosa, ingannevole e pericolosa, che la Torah definisce con l’espressione “La mia forza e la potenza della mia mano mi ha procurato questo benessere” ricordando invece l’aiuto che ci viene dal Signore, “Perché è Lui che ti concede la forza di procurarti questo benessere” (Deut. 8,17-18). La possibilità di interpretare correttamente le opportunità e i rischi di queste nuove situazioni dipende comunque da tutti gli ebrei, ovunque si trovino.

Rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova

(17 dicembre 2020)