Talelei razon

La poesia è un atto di coraggio e un segno profetico. Ci sono persone che scelgono o sono spinte da una forza interiore a usare le parole, il loro suono e il ritmo. Si tratterebbe – a rigore – di un genere letterario con regole precise, ma nella contemporaneità sempre più spesso le leggi della metrica e del fraseggio sono state scardinate da nuove e affascinanti forme. Il coraggio del poeta – una forza che attira e forse incute un po’ di timore – io lo leggo nella disponibilità di mettere a nudo la propria essenza. La profezia si avvera nel momento esatto in cui l’anima del poeta riesce, con l’ausilio delle parole, delle pause e dei silenzi, a mettersi in comunicazione con le parti più profonde, gli anditi più reconditi del lettore incuriosito. È possibile che un tratto di poesia – più o meno accentuato – risieda in ognuno di noi. E non è detto che debba emergere solo a parole. Tuttavia quando ciò accade, quando capita di leggere versi che smuovono e colpiscono le corde più sensibili della nostra interiorità, la sensazione è quella di vivere un piccolo miracolo. Una sensazione piacevole e appagante. È questo di certo il caso del prezioso volumetto pubblicato da Ariel Viterbo con il titolo ebraico Talelei razon (CLEUP, Padova 2020). “Barechénu H. Elokénu Bechòl Ma’assé Yadénu Uvarèch Shnaténu BeTaleléi Razòn” è la benedizione che noi ebrei recitiamo nella versione estiva della Amidà chiedendo al Signore di benedire il nostro anno con “rugiade propizie”. Un titolo significativo per un libro in italiano, che già contiene in sé un segno culturale forte. Infatti, come accadeva nei secoli dell’Umanesimo e del Rinascimento, così ricchi di scrittori e poeti ebrei italiani, Ariel Viterbo afferma il diritto di frammischiare la lingua ebraica a un testo letterario italiano: due culture che gli appartengono e che non può immaginare disgiunte. Lui ne è figlio, e con il suo lavoro e il suo spirito ci accompagna in questo ideale percorso di continuità nel quale la civiltà ebraica contribuisce ad arricchire la storia del nostro Paese. Muovendo peraltro da Gerusalemme, dove ormai da trent’anni l’Autore vive, ampliando con i suoi studi da storico la nostra conoscenza delle vicende delle comunità ebraiche italiane e poetando nel contempo in un italiano profondo e raffinato. Ariel Viterbo ci dona trentasei poesie che si leggono d’un fiato. Ma poi ci costringono a ritornare su singole frasi e sonorità che sanno cogliere e quasi disegnare sentimenti e situazioni a noi tutti assai note ma nascoste e non svelate. Sorprendendoci con espressioni e aforismi che di fatto ci riportano alla natura profetica e privilegiata del poeta. “Ad ogni bivio/ dobbiamo/ sbagliare/ da soli” è – per fare solo un esempio – un finale di poesia così forte, disperato e nel contempo ottimistico da lasciare interdetti. Certo, siamo soli, nessuno ci ha fornito il libretto di istruzioni per l’uso della nostra esistenza, eppure dobbiamo scegliere e se del caso sbagliare. Siamo liberi in questo. Fra le poesie che mi hanno particolarmente colpito (le altre le consiglio tutte, comunque) una tocca l’animo di chi, dopo aver perso un genitore, recita per un anno intero il kaddish del lutto. La riporto qui per intero violando il copyright. L’uso dell’italiano e dell’ebraico assieme costituiscono gli ingredienti necessari per la costruzione di una poesia che si trasforma in preghiera interiore e che chiama i lettori a partecipare necessariamente al sentimento e al dolore del poeta. Che è anche il mio e di tanti di noi.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC

Amèn
Ho parlato abbastanza
ora posso tacere
tre volte al giorno

itgadàl veitqadàsh
il Tuo nome grande
lo innalzo anch’io

tre volte al giorno
sarà benedetto
veishtabàkh veitpaàr

e Ti ringrazierò
per gli anni di buio
la vita spenta

la sofferenza di un uomo
i miracoli che non hai fatto
sera mattino
persino pomeriggio

Dio clemente
la cui misericordia
è finita troppo presto

ho parlato abbastanza
ora posso tacere
per un anno intero

il Tuo nome sarà
molto al di sopra
di tutte le benedizioni
shiratà tushbechatà

il mio lo nascondo
senza lodi,
e voi dite Amèn.