Una parola di conforto

“Et ha Elo-him anì jareh – Il Signore D-o io temo” (bereshit 42;18).
L’espressione di Josef potrebbe essere scontata, se egli si fosse trovato nella terra di Chena’an vicino, magari, a suo padre o ai suoi nonni. La cosa diventa più strana che venga pronunciata, davanti a degli estranei (in quel momento i suoi fratelli venivano considerati così da lui) o a degli egiziani.
L’espressione viene pronunciata da Josef per ben due volte: davanti alla moglie di Potifar, che tentava di corromperlo – quando era appena arrivato in Egitto, in giovane età – e quando – nel caso della nostra parashà – si trova davanti ai fratelli, ma con una condizione di vita assai importante.
I nostri Maestri commentano dicendo che molte persone temono D-o quando sono povere, ma quando diventano ricche pongono la loro fiducia nel denaro, perdendo così anche la bontà verso il prossimo. Josef è diverso:
Egli, sia da povero – al cospetto della moglie di Potifar – sia da ricco – davanti ai fratelli come viceré – mantiene ugualmente la fede in D-o. È molto più semplice e scontato essere credenti e fiduciosi in D-o, da poveri che da ricchi. Un antico proverbio romano, probabilmente di origine ebraica, suona con le parole: “tutti i poveri hanno il cuore buono”. A volte una buona parola è molto più facile riceverla da una persona che soffre (in tutti i sensi) che da chi ha possibilità di aiutare realmente.
Temere D-o vuol dire rendersi disponibili a tutti coloro che hanno bisogno, anche soltanto di una parola di conforto.

Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna