“Finzi Contini, un film
che non invecchia mai”

Mezzo secolo fa, il 4 dicembre del 1970, usciva nei cinema italiani Il giardino dei Finzi Contini, diretto da Vittorio De Sica e tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani. Un film che ebbe ottime recensioni e incassi, pur con una controversa vicenda produttiva, e che ha, ancora oggi, una considerevole presenza nei ricordi cinematografici di chi lo vide allora o lo ha visto in seguito. Fu il primo film di De Sica senza la sceneggiatura di Cesare Zavattini, suo storico collaboratore. Il regista aveva però certo esperienza nel portare dalle pagine agli schermi grandi romanzi, com’era accaduto per Ladri di biciclette, o La ciociara, tratto da un romanzo di Alberto Moravia.
L’opportunità dell’anniversario è stata colta dall’Associazione ex allievi e amici della Scuola ebraica di Torino, promotrice di un incontro online in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino a cui sono intervenuti, prima della visione integrale del film, alcuni dei protagonisti e critici cinematografici.
Di fronte a un pubblico numeroso e molto interessato, dopo l’introduzione del presidente dell’Asset Giulio Disegni, il primo a ricordare aneddoti ed emozioni suscitate dal film è stato Giorgio Treves, regista torinese che all’epoca fu giovanissimo assistente di De Sica, chiamatovi quasi più per la sua provenienza ebraica che per l’esperienza cinematografica, che ne segnava l’esordio nel mondo della celluloide. L’esperienza per Treves fu determinante anche nei suoi percorsi futuri che tra l’altro lo portarono, già nel 1972, a realizzare il cortometraggio KZ sui campi di concentramento e di recente, nel 2018, il documentario 1938 – Diversi, sull’impatto delle leggi razziste nella società italiana.
È seguito un intervento vivace e profondo di Emi De Sica, lo stesso sorriso del padre Vittorio, coinvolgente e convincente nel sostenere che il film dev’essere visto specie dalle giovani generazioni, oggi più che mai, perché il ritorno di qualunquismo, razzismo e neofascismo non sono più solo striscianti.
È stata poi la volta di Lino Capolicchio, protagonista insieme a Dominique Sanda, che ha ripercorso i momenti della lavorazione di un film che l’ha segnato nella sua formazione. L’attore ha ricordato con commozione la sua visita al campo di Mauthausen, e anche la prima mondiale del film a Gerusalemme, quando si trovò a cena con Moshe Dayan, ministro della Difesa, seduto accanto al Primo ministro Golda Meir che, dopo essersi girata a guardarlo, gli chiese se fosse ebreo, perché nel film sembrava proprio così.
Domenico De Gaetano, direttore del Museo Nazionale del Cinema, e Donata Carelli, sceneggiatrice e saggista (è da poco uscito un suo volume su Ugo Pirro, sceneggiatore del film: La scrittura del conflitto), hanno messo in luce il significato e l’attualità di un film assai significativo come strumento anche didattico, per aver saputo mettere in luce le profonde responsabilità degli italiani e del fascismo, in ogni contesto, nella severa e rigorosa applicazione delle leggi antiebraiche.
I relatori hanno posto anche l’accento sulla novità che il film ha portato nella cinematografia italiana, per aver contribuito, tra i primi, negli anni Settanta del secolo scorso, a fare luce su uno dei capitoli più discussi e controversi della storia recente del nostro Paese: la persecuzione degli ebrei in Italia, argomento che allora, nei manuali scolastici, era affrontato in poche laconiche righe.
Come è stato ben ricordato, il film di Vittorio De Sica, e otto anni prima il libro di Giorgio Bassani, contribuirono a squarciare un velo di omertà e colpevole silenzio.

(21 dicembre 2020)