Machshevet Israel
Averroismo ebraico

Si fa un gran parlare e pubblicare libri sulla mistica ebraica e poco si sa di quell’ebraismo che, in parallelo alla nascita e al diffondersi della qabbalà nel medioevo, l’ha avversata e screditata, ben prima che essa servisse la causa dell’eresia sabbatiana nel XVII secolo. Ci sono molte ragioni storiografiche per chiamare il partito anti-qabbalistico (che mise radici in Catalogna come in Provenza, ma soprattutto in Italia) con il nome di ‘averroismo ebraico’. A partire dal XIII secolo, il secolo delle controversie maimonidee, e spesso per chiarire passi ambigui della stessa Guida dei perplessi, si sviluppò infatti tra i pensatori ebrei una crescente adesione all’aristotelismo, ovvero alla filosofia naturale che a quell’altezza storica coincideva con il “gran commento” che il filosofo arabo-musulmano Abdul-Walid Muhammad Ahmad Ibn Rushd, più noto come Averroè, aveva scritto alle opere di Aristotele già tradotte in arabo ma sconosciute in Occidente. Così Aristotele, ma anche Platone, furono accessibili ai filosofi ebrei secoli prima che ai filosofi cristiani; non solo, ma il Commentario medio di Averroè alla Repubblica di Platone, ad esempio, ci è pervenuto solo in traduzione ebraica medievale. Nel Rinascimento cristiano dare a qualcuno dell’averroista era una specie di insulto o di scomunica, invece nel mondo ebraico il termine significava profonda conoscenza di Aristotele, “maestro di color che sanno”, il più grande dopo Moshe Rabbenu; averroismo era sinonimo di approccio scientifico al mondo e di immanentismo, nel senso che “l’uomo può realizzare la piena perfezione di se stesso e del suo intelletto in questo mondo, senza necessariamente trascenderlo”. Si intuisce: era una traduzione ‘moderna’ del principio di Rabbi Yishmael per cui la Torah parla la lingua degli uomini e non v’è bisogno alcuno di elucubrare sugli hekhalot celesti e sulle sefirot per piacere al Creatore.
La lista degli ebrei averroisti (che Maurice-Ruben Hayoun chiama ‘maimonidei di sinistra’) è lunga e stilarla è un bell’esercizio di storia del pensiero ebraico. Potremmo cominciare con Yitzchaq Albalag, attivo nella seconda metà del XIII secolo, un filosofo ebreo che commenta un filosofo musulmano (Al-Ghazali, da lui tradotto in ebraico) alla luce di un altro filosofo musulmano (Averroè)… che frangente storico! Contemporaneo di Albalag è Moshe Narboni, esegeta-filosofo-medico, che mira a conciliare giudaismo talmudico e filosofia, ma per il Narboni la filosofia coincide con il commento averroista allo Stagirita. Non è raro che questi filosofi ebrei critichino Maimonide alla luce di Averroè, ad esempio sull’alternativa tra l’eternità o la creazione del mondo (per il Rambam era impossibile decidere in via teorica su questa questione) o sul tema dell’intelletto agente in relazione all’intelletto umano, o in materia di accessibilità del volgo alla verità. Infatti è al nome del commentatore arabo che, erroneamente, venne associata in Europa la dottrina della ‘doppia verità’, una per il volgo e una per i dotti.
Forse il più averroista degli studiosi ebrei fu Elia Delmedigo, cretese ma attivo in Italia per un decennio, a Padova, epicentro europeo degli studi di medicina e roccaforte dell’aristotelismo averroista; fu anche il primo traduttore dall’ebraico al servizio di Pico della Mirandola: cercò di dissuaderlo dal seguire la moda neoplatonica fiorentina… senza successo. Delmedigo fu influenzato dalle idee del Trattato decisivo, scritto da Averroè nel 1180 e circolante in ebraico già agli inizi del ‘300, in cui si cerca di ‘connettere’ l’uso della filosofia con lo studio dei testi rivelati (il Corano per il maestro, la Torah per l’allievo cretese); tradusse commenti averroisti ad Aristotele dall’ebraico in latino proprio per Pico, certamente anche il sopramenzionato commento alla Repubblica di Platone; e scrisse il suo Bechinat ha-dat o L’esame della religione (1490, su richiesta del discepolo Shaul Ashkenazi) nel quale non risparmia critiche non solo ai cultori della qabbalà ma anche al cristianesimo, definito una fede irrazionale. È probabile che tale attacco critico sia stato riportato ai vertici del cattolicesimo patavino e che da lì gli siano arrivate minacce e pressioni affinché lasciasse la città. Cosa che avvenne.
L’averroismo, o meglio l’aristotelismo averroista, fu il ‘verbo’ incontrovertibile della filosofia naturalista ancora per un paio di secoli, fino a quando nel Seicento le nuove scoperte scientifiche e i progressi tecnologici lo mandarono in pensione. Nell’ambito ebraico, l’approccio averroista influenzò indirettamente personaggi come Messer Yehudà Leon, Ovadia Sforno, Leone Modena e Isacco Lampronti, tutti grandi avversari, per così semplificare, della qabbalà. Certo, tra i qabbalisti ci sono nomi importanti, come Moshe Zacuto nel XVII secolo e il Ramchal nel XVIII… ma ancor oggi, se articolassimo puntualmente ragioni, metodi e scopi dell’averroismo – ossia dell’approccio scientifico ma non dogmatico al mondo, connesso alla fede – la stragrande maggioranza degli ebrei nostri contemporanei si dichiarerebbe ‘averrosista’ e non ‘qabbalista’. Così, almeno, mi pare.

Massimo Giuliani, Università di Trento