Un sistema di sicurezza collettivo

Il numero e le caratteristiche dei Paesi che nel giro di breve tempo hanno deciso di stabilire rapporti diplomatici con Israele, superando la precedente situazione di ostilità se non addirittura di stato di guerra, spinge verso un quadro che non sia caratterizzato soltanto da rapporti bilaterali, ma permetta di stabilire un vero e proprio sistema di sicurezza collettivo.
In questo momento sono infatti sei i Paesi arabi che hanno rapporti diplomatici ed economici con Israele (Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan, Marocco) coprendo un’area che va dall’Atlantico all’Oceano Indiano passando per il Mediterraneo. Altri Paesi hanno di fatto già stabilito questi rapporti, come l’Oman, mentre il cambiamento di clima tra il Qatar e gli altri Stati del Golfo può preludere a cambiamenti di campo clamorosi. Anche lasciando da parte le voci su ulteriori accordi diplomatici ed economici con Paesi a maggioranza islamica di rilevante importanza come il Pakistan e l’Indonesia, che comunque sono esterni all’area di cui stiamo parlando, è evidente che la chiave di volta che permetterebbe di passare da una serie pur significativa di rapporti bilaterali a un vero e proprio sistema di sicurezza collettivo è costituita dall’atteggiamento dell’Arabia Saudita.
Il problema dell’Arabia Saudita non può essere affrontato con lo spirito di chi crede che si stia parlando di una sorta di collana alla quale aggiungere uno dopo l’altro una serie di anelli che inevitabilmente, prima o poi, sono destinati a inserirvisi. Il problema dell’Arabia Saudita va affrontato tenendo conto non solo che, come Paese custode dei luoghi santi dell’Islam, è investito di una particolare responsabilità, ma anche avendo presente che esso è il Paese capofila nell’affrontare le pretese egemoniche dell’Iran. L’adesione dell’Arabia Saudita allo stabilimento di rapporti diplomatici con Israele e conseguentemente alla costruzione di un sistema di sicurezza collettivo, passa attraverso la soluzione di una serie di problemi che rappresentano il terreno di scontro tra i due campi sunnita e sciita.
Primo fra tutti la soluzione del problema palestinese. Israele non farebbe errore più grande pensando che il problema palestinese stia di fatto scomparendo sulla scia dei successi diplomatici dello Stato ebraico. Il problema palestinese esiste ed è costituito in ogni caso dai milioni di persone che vivono tra Cisgiordania e Gaza e ai quali deve essere data una rappresentanza politica. Che finora la dirigenza palestinese – sia quella dell’OLP che quella di Hamas – abbiano dimostrato una totale incapacità ad affrontare il problema in termini realistici non toglie che esso continui ad esistere e debba essere risolto in termini che non mettano a rischio la sicurezza d’Israele. Il ruolo dell’Arabia Saudita nella costruzione di uno Stato palestinese smilitarizzato e di fatto sotto il controllo israeliano, sulla base di una cooperazione economica e scientifica, può essere decisivo.
Nello stesso modo il ruolo dell’Arabia Saudita è decisivo nella risoluzione di altri problemi che caratterizzano l’area: primo tra tutti il conflitto interno allo Yemen; poi il Libano, dove va risolto il problema della presenza di Hezbollah; la Siria, che potrebbe trovare una via d’uscita dalla situazione di frammentazione e di dipendenza da Paesi stranieri dove l’ha condotta la dittatura di Assad; la Libia, dove probabilmente dovrà essere abbandonato il mito di un’unità nazionale costruita dal colonialismo italiano per tornare alla situazione vigente sotto il dominio ottomano che vedeva autonome Tripolitania e Cirenaica; infine lo stesso Iraq dove il quadro politico continua a essere precario.
Un forte sistema di sicurezza collettivo potrebbe affrontare nel tempo tutti questi problemi in condizioni di forza di fronte alle due potenze destabilizzanti dell’area: l’Iran e la Turchia. Perché questo possa avvenire occorrerà però che il futuro sistema di sicurezza collettivo a partecipazione saudita non si ponga obiettivi di natura ideologica, dello stesso tipo di quelli che caratterizzano l’Unione Europea. Dovrà trattarsi di un sistema basato soprattutto sulla collaborazione diplomatica, militare ed economica, nella consapevolezza che si tratta di Paesi con caratteristiche politiche, sociali e culturali assai diverse. In fondo è stato così anche per il Patto Atlantico. Il tema dei diritti umani dovrà essere progressivamente introdotto nella misura in cui il sistema di sicurezza si sarà consolidato ma senza dimenticare che si tratta di Paesi che hanno sistemi politici profondamente diversi.
In conclusione, se questo sistema di sicurezza collettivo vedrà la luce – e non si tratta davvero di un’utopia – esso dovrà fare i conti, in senso positivo, con il ruolo degli Stati Uniti e dell’Unione Europea e, in un senso decisamente diverso, con quello della Russia e della Cina. Ma potrà farlo da una posizione non subalterna agli interessi di tutti questi Paesi.

Valentino Baldacci