Entusiasmo e scetticismo

Tra i tanti eventi negativi occorsi in quest’anno gregoriano ormai al termine possiamo almeno affermare che il 2020 è stato anche l’anno del riconoscimento di Israele da parte di molti paesi chiave del mondo arabo. Fonti del New York Times parlavano per esempio recentemente anche di una possibile riapertura dei rapporti diplomatici con la Tunisia – rapporti in precedenza esistenti, ma interrotti nel 2000 con l’inizio della seconda intifada – per quanto per adesso smentite dallo stesso stato maghrebino. Tra l’entusiasmo di queste notizie è comprensibile che emerga anche un certo scetticismo o dei timori. Queste nuove relazioni diplomatiche instaurate apparentemente dall’oggi al domani sono legate a interessi puramente economici (considerando che rapporti commerciali tra il mondo arabo e Israele ci sono in qualche modo sempre stati) o di facciata? Porteranno poi davvero benefici anche al conflitto arabo-israeliano? Cambieranno anche l’atteggiamento da parte delle popolazioni locali nei confronti degli ebrei e di Israele? – considerando anche la spaccatura sempre più forte che esiste in questi paesi tra cittadini e governanti.
Sono domande alle quali per adesso non è data una risposta precisa. Tra i vari dubbi ho trovato interessanti e legittimi anche quelli espressi su queste pagine e altrove sull’eventuale rischio del ricrearsi di nuove diaspore o sul ritorno in luoghi dove ormai una presenza ebraica non esiste più da decenni. A tal proposito i recenti sviluppi diplomatici dovrebbero portare anche a una necessaria riflessione storica-mnemonica nei suddetti paesi sui traumi causati dagli esodi degli ebrei del mondo islamico, specialmente qualora queste aperture si estendano anche ad altri luoghi storicamente più ostili.
Non credo comunque personalmente che in futuro assisteremo al verificarsi di nuovi esodi o diaspore. Soprattutto perché il concetto di “esodo” o “diaspora” è motivato nella storia umana, e in quella ebraica ancora di più, soprattutto da situazioni di pericolo e di persecuzione che spingono grossi flussi di persone a lasciare il proprio paese, più che a scelte dettate da motivazioni individuali. Nel mondo globalizzato, per quanto purtroppo le migrazioni causate da guerre o persecuzioni siano ancora presenti, si assiste più normalmente al fenomeno della transnazionalità. Se non emergono reali politiche discriminatorie, i legami con un paese d’origine, anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, non sono mai del tutto scissi. Vi sono francesi che hanno fatto formalmente l’aliyah ma continuano a vivere per ragioni lavorative o familiari tra Parigi e Tel Aviv, israeliani che hanno scelto di vivere a Berlino o a New York ma che tornano frequentemente in Eretz per le vacanze (o vi torneranno in via definitiva in futuro i propri figli), o italiani che dopo una vita trascorsa nella penisola scelgono di trascorrere la propria pensione in Israele e viceversa. Un contesto globale nel quale sia offerta a chiunque la possibilità di spostarsi in ogni luogo non è necessariamente un mondo diasporico nel quale si abbandonano le proprie radici, ma un luogo nel quale anche gli scambi e la conoscenza tra gli individui avvengono con più facilità. Penso dunque, rispondendo in parte a una delle domande che ho posto, che l’antisemitismo presente nel mondo arabo sia dovuto, oltre che a motivi ideologici, anche a una scarsa conoscenza che gli abitanti di questa parte del mondo hanno nei confronti del mondo ebraico e di quello israeliano, dovuta a una mancanza di contatti. La libertà di movimento tra le rispettive popolazioni, e l’auspicio dell’instaurarsi anche di relazioni accademiche e culturali, potrebbe sopperire in questo, con tutte le cautele necessariamente da considerare.

Francesco Moises Bassano

(24 dicembre 2020)