L’illuminismo capovolto
La diffusione, sempre più pervasiva, di interpretazioni complottiste, che riducono la complessità e l’apparente indecifrabilità del reale a un’interpretazione altrimenti diretta, lineare, antropomorfa (i responsabili del disagio che si sta vivendo sono sempre “altri” uomini e donne) e, soprattutto, di falsa denuncia dello stato delle cose esistenti, attribuendo infine qualsiasi evento all’azione di «forze occulte» (ma anche di non meglio precisati «poteri forti»), non è un residuo del passato, ma la prospettiva alla quale una parte delle società contemporanee rischia di consegnarsi in un sorta di inedito medioevo tecnologico. Medioevo nel quale all’evoluzione quasi esponenziale della massa di dati e informazioni trattati subentra, per molti cittadini, la crescente incomprensibilità degli effetti del mutamento. L’infodemia, una parola di recente generazione che indica la «circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili» (così il Vocabolario della lingua italiana Treccani) è l’altra faccia della lettura cospirazionista del mondo. La quale, va ribadito, non nasce da un difetto di conoscenza. Semmai è il prodotto del bisogno e dalla presunzione di potere conoscere il tutto, dominandolo con i propri sensi e con la ragione. Altri parlerebbero di «società del rischio» (Ulrich Beck), dove il vero scarto è però quello che intercorre tra l’ossessivo bisogno di prevedere e prevenire a fronte dell’oggettiva mancanza di reali risorse collettive da disporre effettivamente in tale senso. Nonché dell’evidente impossibilità, dinanzi ad eventi che fuoriescono dalla sfera dell’azione e della diretta manipolazione umana, di agire anticipatamente: si possono costruire edifici a norma antisismica, ma oltre certe soglie eventuali scosse telluriche scaricano una tale quantità di energia da non potere essere fronteggiate con ciò che al momento l’ingegno umano riesce a mettere a disposizione. Al netto delle concrete responsabilità umane, laddove identificabili, in questo come in molti altri casi ciò che entra in gioco nel determinare il disastro non è la volontà umana di causarlo ma la sua incapacità di contenerne gli effetti. Così come, nel caso di una pandemia virale, la cui origine è naturale, diverrà allora molto più semplice (e rassicurante) attribuire la sua genesi a qualche oscura forza umana che non il riscontrare un fatto imprescindibile, ossia che l’uomo può governare certi processi ma non sostituirsi a quel complesso di fenomeni ed elementi che appelliamo con il nome di «natura». Peraltro, quando entriamo nel campo della previsione, ambito al quale è connaturata un elevato grado di incertezza, abbiamo a che fare con diffuse credenze, frequentemente incentivate dalle stesse autorità pubbliche. Le quali invitano le collettività a “precedere” il manifestarsi delle cose, presentando ciò come un fattore positivo poiché a garanzia dell’evoluzione dell’ordine sociale. Salvo, tuttavia, misurare su di sé, nel medio e lungo periodo, in termini di declinante credibilità, il costo di questa cesura tra astratta previsionalità ed effettiva capacità di prevenzione, quand’essa sia estesa a tutta la popolazione. Tanto più quando produce l’effetto di vellicare l’idea, in sé del tutto incongrua, di una sorta di «rischio zero», che non potrà mai essere per davvero raggiunto: nei fatti, l’imprevedibilità così come la non governabilità di molti eventi, sociali e naturali, sono destinate a sopraffare i tentativi di imbrigliarne le manifestazioni. Recita l’Amleto di Shakespeare: «ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia», a suggello del riscontro che la conoscenza non può interpretare, spiegare e ancora meno contenere l’evoluzione della varietà dei fenomeni collettivi. Anche quando sono il prodotto della volontà umana.
Un esempio classico, a tale riguardo, è l’estensione dei trattamenti previdenziali e pensionistici a buona parte della collettività: di per sé costituiscono un accantonamento di quote di remunerazione immediate a favore di benefici futuri (qualcosa che è conosciuto come «gratificazione differita»). La funzionalità di queste condotte collettive, gestite perlopiù dalla pubblica amministrazione o da soggetti privati autorizzati ad operare in sua vece, è evidente: si sottrae una parte dell’utilità immediata, la si mette da parte per poi utilizzarla quando, con l’avanzare dell’età, plausibilmente non si sarà più in grado di offrire una prestazione lavorativa di contro alla retribuzione che da ciò deriva. Fin qui si rimane agli aspetti fondamentali di un sistema di sicurezza sociale che si è affermato, non senza fatica, perlopiù solo negli ultimi centocinquanta anni, quelli della diffusione dei sistemi di garanzia collettiva, il cosiddetto Welfare State. Le nostre società si basano quindi su un profondo nesso tra previsione, soggezione a norme di legge e prevenzione. La qual cosa, però, implica, la stabilità delle condizioni di vita e la comprensibilità (nonché la calcolabilità) dei processi a venire. Due elementi che, in questi anni, sono invece profondamente cambiati, incidendo sul comune sentire. Rispetto al quale si è invece in presenza di una sorta di profondo differenziale cognitivo, quello che intercorre tra aspettative e realtà, ovvero tra bisogno di protezione (incorporato nella visibilità dei processi sociali e nell’intervento di istanze, agenti e soggetti superiori all’individuo, quindi di gruppo umano, e come tale dotati di un grado di legittimità autonoma oltreché condivisa) e crescente sentimento di abbandono (derivante dal riscontro che le cose si dispongono in ben altro modo, lasciando le persone a sé, con i loro problemi irrisolti e in mancanza di risorse). Questo scarto quotidiano («non riusciamo a capire») che diventa, nella percezione diffusa, scacco totale («siamo sopraffatti perché ci stanno ingannando»), rischia di costituire l’orizzonte emotivo prevalente per molte persone, defraudate dal sogno (e dal soddisfacimento del bisogno) di una rassicurante prevedibilità totale. Un fattore che nelle nostre società incide in maniera crescente nelle angosce comuni è la crisi di ruolo e di funzione dei «corpi intermedi», ossia l’insieme delle organizzazioni che mediano tra gli interessi e i bisogni degli individui, da una parte, e le grandi strutture impersonali, a partire dallo Stato, dall’altro. I corpi intermedi, infatti, hanno esercitato a lungo una triplice funzione: quella solidaristico-coalittiva («insieme possiamo ottenere qualcosa di più ma, soprattutto, possiamo dividerci meglio i costi dell’imprevedibilità, ammortizzandone collettivamente gli oneri»); quella redistributiva (dando voce a quel bisogno individuale che si fa richiesta comune e, quindi, capacità di contrattazione per una migliore ripartizione della ricchezza socialmente prodotta); quella risarcitoria e simbolica («se una cosa ti accade te ne fai una ragione insieme ad altri e poi prosegui, confidando in un comune futuro migliore oltre a potere avere qualche compensazione materiale e morale da subito»). Il declino di soggetti collettivi come i sindacati, i partiti di massa, l’associazionismo rivolto alla cittadinanza (di contro al crescere di organismi e soggetti particolaristi, che enfatizzano la dimensione rivendicativa legata all’«identità» e all’ipertrofia dello spazio privato) è peraltro connaturato a quella che viene identificata come crisi del ceto medio. Un prodotto, quest’ultimo, della globalizzazione in atto, che sta rompendo le filiere sociali centrali delle società a sviluppo avanzato, avvantaggiando altri gruppi e incoraggiando il ritorno delle appartenenze legate alle comunità identitarie e fondamentaliste. La superstizione, quando si manifesta, subentra quindi anche a riempire questo vuoto, agendo da vero e proprio ansiolitico e da inibitore dell’angoscia da mancanza di comprensione e riconoscimento. Non basta stigmatizzarla e condannarla poiché essa non demanda alla ragione e alla cognizione ma, piuttosto, all’emozione e al risentimento, che sono due funzioni del mancato soddisfacimento dei bisogni collettivi di integrazione e di riparazione. Integrazione nel tessuto sociale, condivisione di significati comuni e riparazione dalle offese subite. La superstizione agisce quindi su un piano che non è quello della concreta ragionevolezza (darsi una ragione del senso degli eventi) bensì dell’astratta razionalità (identificare un nesso di causa ed effetto, rispetto al quale attribuire una qualche “colpa” a qualcuno) rispetto ad un fine che, in questo caso, è soprattutto il porre un freno al dilagare di un timore panico, quello di perdere il controllo della situazione che si sta vivendo e, con essa, di se stessi. Le teorie del complotto, in quanto strutture lucidamente deliranti, hanno una loro assoluta e incontrovertibile linearità e regolarità, non prestandosi a nessuna replica di merito. Quand’essa dovesse comunque presentarsi, anche in forma ineccepibile e comprovata, ci si sentirà rispondere, da chi crede nei complotti, che ciò che viene contro-affermato non è mai di per sé sufficiente a dimostrare l’altrui fallacia. Poiché il complottismo segue il percorso di qualsiasi ideologia, avendo ad oggetto non la realtà ma le costruzioni mentalizzate che si fanno su di essa. È, per l’appunto, la «logica di una idea» (Hannah Arendt), e non una idea sulla logica. Sospetto sistematico, pregiudizio, teoria del complotto hanno in comune non solo la semplificazione della complessità ma anche la dichiarazione di principio che non esiste altra realtà plausibile che non sia quella che deriva dalla proiezione ossessiva delle proprie fantasie. Si tratta, nel qual caso, non di follia bensì di una sorta di realizzazione di quella istanza di auto-affermazione che parrebbe sentenziare: «se la realtà non si piega ai miei bisogni, tanto peggio per la realtà stessa, costruendomene una a mia immagine e somiglianza e condividendola con altri, in una sorta di comunione d’affetti». Poiché i cospirazionisti, intesi nel senso di coloro che denunciano l’esistenza di trame occulte in quanto ragione e fondamento delle disgrazie collettive, si vivono come una comunità emotiva, sentimentale e morale, condividendo un legame profondo che è generato dal riconoscersi reciprocamente come portatori di una consapevolezza superiore, quella che deriva per l’appunto dal dedicarsi allo smascheramento della congiura in corso. Le astuzie di quanti rifiutano le vaccinazioni, si inscrivono in questa trama pseudologica, tanto più livorosa quando veste i panni di discorso contro i «poteri occulti», o Deep State. L’indignazione si trasforma allora da risorsa civile in strumento per coalizzare gli arrabbiati e canalizzarne il risentimento verso obiettivi prestabiliti. Così, tra i tanti casi possibili, per le polemiche inverosimili, ingiuriose prima ancora che deliranti, sul declassamento dell’intensità dei terremoti a fini di calcolo politico o la campagna, per molti aspetti allucinata, di alcuni soggetti contro la medicina allopatica (aggettivata come «medicina ufficiale») nel nome della lotta nei confronti delle «multinazionali della salute», della «libertà di scelta» e così via. In un gioco di ruoli dove la norma collettiva diventa prevaricazione e imposizione a tutti gli effetti, contro la quale si invoca un presunto diritto abrogazionista, basato sull’istanza individuale dell’«essere padroni di se stessi», anche a rischio di compromettere l’interesse collettivo. Il campo della salute del corpo (quello individuale ma anche quello comune, la società, quest’ultima raffigurata come una sorta di organismo antropomorfico) è peraltro da sempre il terreno elettivo delle peggiori idiosincrasie. Si tratta di dinamiche settarie, che in prospettiva minano lo stesso principio democratico della cittadinanza, in sé altrimenti inclusivo e pluralista e non esclusivo e monista. Poiché il complottismo porta con sé, sempre e comunque, il corredo di una sottocultura del sospetto sistematico, dove una parte della società è indicata come causa delle difficoltà e dei problemi collettivi. Fa quindi riflettere il fatto che a dettare l’agenda politica concorrano, ai giorni nostri, forze politiche che proprio su di una visione basata sistematicamente sul complotto (quello che, in questo caso, sarebbe ordito dalle élite, perlopiù politiche, ai danni della collettività) stanno costruendo le loro fortune. Il complottismo, peraltro, nella sua ragione intrinsecamente paranoica, non vive di semplici immagini create ad arte ma piuttosto dell’enfatizzazione ideologica di un qualche elemento della vita comune, decontestualizzandolo ed isolandolo come se fosse un assoluto. In altre parole, non deve inventare nulla ma, piuttosto, sottrarre un elemento dal suo contesto, facendolo poi divenire la chiave attraverso la quale presumere di capire come si muova il mondo.
Studiando le strutture logiche dell’antisemitismo ci si trova spesso a confrontarsi con una tale disposizione d’animo. Si tratta di una forma di vera e propria falsa coscienza, capace di raccogliere intorno a sé molteplici e insospettabili consensi poiché si presenta come “denuncia” dell’inconfessabile trama occulta, dissodamento degli interessi celati, disoccultamento delle “autentiche ragioni” per cui il popolo (oggi evocato perlopiù come «gente»), sarebbe invece ingannato da forze tanto potenti quanto celate. Un classico, nei momenti di crisi da trapasso delle vecchie forme di organizzazione sociale in un qualcosa di nuovo, come tale in sé poco o nulla preventivabile e ancora meno gestibile con le proprie sole forze. In poche parole: l’evoluzione tecnologica, sempre più accelerata, comporta sia una redistribuzione di risorse e di saperi che il riproporsi di diseguaglianze in società che pensavano di vederle invece attenuate; i centri di imputazione dei processi decisionali sono molto meno tangibili che nel passato anche solo da poco trascorso, mentre gli effetti di decisioni sistemiche collassano letteralmente su intere comunità, concorrendo a trasformarne criteri e spazi di azione; i destinatari di questi cambiamenti si trovano nella scomodissima situazione di dovere subire senza potere reagire se non individualmente, adottando strategie di sopravvivenza; la sensazione di spossessamento unita al senso del declassamento e al timore per il tempo a venire diventano quindi il fertile terreno per il diffondersi del convincimento che la realtà sia di per sé un inganno e che quest’ultimo derivi dall’azione di soggetti tanto brutali quanto nascosti, smascherati i quali lo “stato delle cose” dovrebbe finalmente tornare alla quiete della prevedibilità. Una concatenazione, quest’ultima, che non riguarda una generica ignoranza, interrogandoci semmai sulla inquietante esistenza di una sorta di illuminismo capovolto, quello per l’appunto che deriva dalla necessità di illudersi ponendosi al riparo di una falsa comprensione del significato degli eventi.
Claudio Vercelli