Un popolo nella storia
Venerdì scorso, 10 Tevet – quest’anno 25 dicembre, mentre il mondo cristiano celebrava il Natale noi ebrei digiunavamo in ricordo dei morti nella Shoah. Mentre la visione cristiana rammemorava e consacrava con la nascita di Gesù di Nazareth l’avvento di una interpretazione della realtà divenuta poi dominante nel mondo occidentale, la visione ebraica riannodandosi a un grave fatto della sua storia (l’inizio, nel 588 avanti l’era volgare, dell’assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor che avrebbe portato alla fine dell’indipendenza nazionale e alla distruzione del Santuario) lo interpretava come occasione del Kaddish generale e della riflessione collettiva in memoria di chi fu assassinato nello sterminio. Se il mondo cristiano sublima una vicenda individuale a paradigma del divino e di una rigenerazione dell’umanità verso la trascendenza, il mondo ebraico sceglie di rimanere nella storia immanente dell’uomo e di glorificare Dio (tramite il Kaddish) nel segno della memoria di chi non è più, come sua tradizione. Il digiuno, poi, è in questo caso come per il 17 Tammuz e il 9 di Av (date legate alla medesima sconfitta storico-politica del popolo ebraico) lo strumento di afflizione individuale, di privazione personale/fisica di cui la memoria si circonda per avvicinarsi a chi è stato inghiottito nel gorgo dell’annientamento.
È sintomatico della sua complessiva Weltanschauung il fatto che per ricordare la più totale delle persecuzioni che lo hanno colpito il popolo ebraico resti saldamente ancorato alla storia, dato che tangibile fatto storico fu lo sterminio. E sintomatico è che lo faccia in due prospettive (e date) diverse: da un lato – il 10 Tevet – nell’ottica del rapporto personale con gli scomparsi legato alla recitazione del Kaddish, dall’altro – per Yom Ha Shoah, il 27 Nissan – in quella oggettiva e politica significativamente collocata tra l’anniversario della ribellione del Ghetto di Varsavia il 15 Nissan e Yom Ha Atzmaut il 5 Iyar. Denominatore comune di questo duplice sguardo della memoria ebraica alla Shoah è la storia, agganciata da un lato alla catena dei lutti nazionali che hanno condotto alla distruzione del Tempio, dall’altro allo spirito della rivolta e della ritrovata autonomia nazionale. Nella memoria del dolore come nella costruzione dell’esistenza ebraica siamo un popolo radicato nel tangibile terreno della storia.
Eppure – tornando al confronto col Natale cristiano – l’opinione corrente vede il cristianesimo, attraverso la vicenda che fonda il suo credo, come una discesa del divino nell’umano, dunque come una umanizzazione della visione ebraica del mondo, che è basata sulla irrinunciabile trascendenza del divino. Mi pare una interpretazione in parte incongrua, considerando da un lato come nel cristianesimo l’umanizzazione del divino tenda a divenire una divinizzazione dell’umano, dall’altro come lo sguardo ebraico sia nel complesso tutto proiettato sulla vita umana nella sua dimensione sociale e individuale maturata nella storia, e come solo a partire da questa prospettiva concreta (materiale e spirituale, esteriore e interiore) esso si rivolga di continuo alla trascendenza divina.
David Sorani
(29 dicembre 2020)