Bilancio di fine anno

La conclusione dell’anno solare induce a fare un bilancio, derivante da un punto di vista personale, senza alcuna pretesa che esso sia condiviso da altri. Tre mi sembrano gli eventi che meritano di essere messi in evidenza: la pandemia, naturalmente; l’accordo di Abramo; la persistente instabilità politico-istituzionale di Israele. Per ognuno di essi farò delle brevi considerazioni.
Per quanto riguarda la pandemia è fin troppo banale sottolineare quanto essa abbia condizionato e quanto ancora condizionerà la nostra vita. Ma l’aspetto su cui voglio richiamare l’attenzione è l’atteggiamento di una parte rilevante della popolazione italiana di fronte alla prospettiva di vaccinarsi contro il Covid-19. Leggo che i responsabili del programma di vaccinazione si riterrebbero molto soddisfatti se la percentuale della popolazione adulta che accetterà di farsi vaccinare arriverà all’70%. A me al contrario sembra inaccettabile che il 30% della popolazione adulta rifiuti consapevolmente una vaccinazione che ha superato tutti i controlli scientifici e sanitari e che appare a tutt’oggi l’unico strumento per liberare l’umanità da uno dei più terribili flagelli che l’abbiano colpita nel corso della storia. Non si sa poi che cosa dire quando il rifiuto viene espresso da medici e più in generale dal personale sanitario, che così vengono meno ai fondamentali doveri della loro funzione.
Una percentuale così elevata evidenzia la persistenza in una parte rilevante della popolazione di un abito mentale pre-scientifico, impregnato di false credenze e in definitiva di pensiero magico. Ci stiamo abituando a considerare come normale o almeno accettabile la presenza dei no-vax come dei terrapiattisti e di altri seguaci di simili amenità. Ma questa è una falsa ed erronea concezione della tolleranza e ancor più della libertà. La negazione dei vaccini appartiene alla stessa famiglia del negazionismo della Shoah, alla stessa famiglia di chi rifiuta le evidenze scientifiche e storiche e si rifugia in un proprio mondo magico impermeabile a qualunque dialogo con il mondo contemporaneo.

L’accordo di Abramo ha costituito un momento di fondamentale importanza non solo perché ha intaccato pesantemente il rifiuto dei Paesi arabi di riconoscere l’esistenza di Israele (con l’eccezione di Egitto e Giordania motivata da situazioni particolari) che durava dal momento stesso della nascita dello Stato ebraico, ma anche perché ha dimostrato di non essere un episodio isolato ma di avere in sé una forte capacità espansiva, con l’analogo passo compiuto da altri Paesi arabi e con la prospettiva di nuovi accordi con altri Paesi arabi e islamici.
Senza voler niente togliere al merito del Presidente Trump, che ha indubbiamente avuto un ruolo di primo piano in questi accordi, e senza trascurare che molti segnali indicano che la stessa strada verrà seguita dalla nuova presidenza Biden, è giusto sottolineare quanto questo accordo sia il frutto di una politica seguita dalla classe dirigente israeliana, condivisa da quasi tutte le forze politiche, che ha saputo unire la necessaria fermezza di fronte agli attacchi militari e terroristici alla disponibilità ad accordi basati anche su soluzioni di compromesso, come dimostrò la pace con l’Egitto fondato sulla restituzione del Sinai e, ancor prima, l’accettazione della Risoluzione n. 181 del 27/11/1947 dell’Assemblea dell’ONU, le proposte di pace formulate all’indomani della Guerra dei Sei giorni basate sulla restituzioni di territori occupati in cambio del riconoscimento e del diritto all’esistenza, la conclusione degli accordi di Oslo del 1993, l’accettazione del piano di pace proposto da Bill Clinton a Camp David nell’estate 2000. Una politica aperta all’accordo con tutti i Paesi arabi e in particolare con la rappresentanza palestinese, da quest’ultima costantemente respinta fino ad oggi. C’è da sperare che la forza espansiva dell’accordo di Abramo possa raggiungere anche quest’ultimo campo e che il popolo palestinese sappia finalmente esprimere una leadership capace di affrontare con realismo il problema del rapporto con lo Stato d’Israele, abbandonando ogni velleità di impossibili rivincite.

A queste prospettive di risoluzione di conflitti che sembravano eterni fa da contrappunto la fragilità del sistema politico israeliano, sottolineata dal quarto ricorso ad elezioni anticipate nel giro di tre anni e dalla apparente impossibilità di formare governi stabili.
Appare incredibilmente contraddittorio che un Paese come Israele che, partendo da una situazione di enorme difficoltà, ha saputo nel giro di alcuni decenni raggiungere traguardi altissimi in campo scientifico ed economico e adesso anche politico, non riesca a dotarsi di un sistema istituzionale adeguato.
È una condizione che Israele condivide con altri Paesi, tra i quali l’Italia, ma per lo Stato ebraico il livello di patologia è ormai insostenibile. Tutte le forze politiche israeliane dovrebbero prendere l’impegno di fare della prossima legislatura un momento costituente che, pur nel rispetto del pluralismo politico che riflette l’articolazione e anche la frammentazione della società israeliana, tuttavia consenta la formazione di governi stabili, in grado di guidare il Paese per un’intera legislatura, come d’altra parte è avvenuto in passato.
Senza la soluzione di questa basilare problema anche i grandi successi finora raggiunti rischiano di vanificarsi e di far regredire il Paese in una condizione di debolezza e di pericolo.

Valentino Baldacci