Spuntino – Linea diretta

La parashà di VaYichì inizia senza interruzioni nel testo rispetto a quella precedente. Non c’è uno spazio bianco pari a (almeno) nove lettere sulla stessa riga e non comincia neanche su una linea nuova, come invece accade normalmente per altri brani. Questo rende più impegnativa l’individuazione del testo sulla pergamena. Una delle spiegazioni è che in questo brano si narra della morte di Giacobbe dopo che aveva vissuto in Egitto per diciassette anni. Se a questi 17 sommiamo gli altrettanti anni di vita trascorsi da Giuseppe in Terra di Israele (Kena’an) si ottiene che, in totale, Giacobbe era stato fisicamente vicino al figlio prediletto per 34 anni. Questo è esattamente il valore numerico della parola VaYichì (= e visse), come a indicare che lo scopo principale della vita di Giacobbe fosse proprio il primo figlio natogli dalla donna che più amava, Rachele. Un’altra spiegazione del fatto che questa parashà risulti “nascosta” è che essa segna l’inizio dell’esilio degli ebrei. Un esilio che degenererà in dura schiavitù, fino al miracoloso esodo. È vero che la decorrenza del giogo faraonico viene normalmente fatta coincidere con il decesso di Levì, diversi anni più tardi rispetto alla dipartita di Giacobbe. Da quel momento le condizioni di vita degli ebrei in Egitto subiscono una svolta. Ciononostante, il fatto che sia necessaria l’approvazione del faraone per trasportare e seppellire Giacobbe in terra di Israele, è il primo segno di subordinazione, di dipendenza da un’autorità straniera. Giacobbe non voleva essere sepolto in Egitto per evitare che la sua tomba divenisse oggetto di culto pagano. È vietato invocare i defunti per ottenere qualcosa. Le preghiere devono essere dirette sempre ed esclusivamente a D-o, eventualmente chiedendo la Sua misericordia in virtù dei meriti di chi é passato a miglior vita.

Raphael Barki