Negazione e cospirazione

Le “fortune” del complottismo, del pari a quelle del negazionismo (due facce, una sola medaglia), non sono ascrivibili all’inverosimiglianza di ciò che dice ma al come lo va facendo. In un sistema di comunicazione collettiva oramai cacofonico non conta tanto il contenuto di un’affermazione ma la sua carica dirompente, tanto più se sembra liberare energie, altrimenti compresse, attraverso il gioco dell’affermazione eclatante. Soprattutto laddove lo scetticismo generalizzato, che si trasforma in cinico rifiuto, è oggi una moneta corrente, nella crisi di trasformazione che le nostre società stanno vivendo e della quale un numero sempre maggiore di persone, e di famiglie, sono chiamate a pagarne un qualche pegno. Soprattutto nel senso della perdita di posizioni abituali nella scala sociale, di rarefazione delle certezze trascorse, di sopravveniente insicurezza. Il complottismo e il negazionismo intercettano una sorta di diffusa critica antisistema. Poiché dichiarano che la storia, e con essa le memorie che ne fanno da corredo, costituiscono nel loro insieme un costrutto meramente ideologico. Quindi, di riflesso, anche il presente sarebbe alterato da una tale manipolazione. La consonanza tra tale raffigurazione delle cose e il modo di presentarsi da parte di certuni che affermano di operare una sistematica e secca opposizione alle derive della contemporaneità, a volte risulta essere sorprendente. Il raccordo politico, da questo punto di vista, avviene senz’altro con la destra radicale, soprattutto quella di osservanza neonazista – che in Italia continua tuttavia ad avere un seguito contenuto (o comunque contenibile). Ma si verifica piuttosto con alcune componenti della sinistra estrema, la cui identità ruota maniacalmente intorno ai cascami del conflitto israelo-palestinese e, soprattutto, con certe componenti del variegato universo populista che nel nostro Paese è andato determinandosi dal crollo della prima Repubblica in poi. È su quest’ultimo piano che si potrebbero giocare le fortune di un complottismo e di un negazionismo, non più ideologici (ovvero strettamente debitori delle loro origini politiche, altrimenti molto connotate) bensì “diffusi”, quindi assai più spuri nelle loro formulazioni ma, proprio per questo, capace di acclimatarsi a trend socio-culturali ampi, di lunga durata. Dalla crisi della politica, dal collasso di una parte delle sue coordinate, come anche dalle trasformazioni della socialità, ovvero dei modi di stare insieme in età pandemica, deriva quindi uno spazio nuovo per negazionisti e amanti delle semplificazioni onnicomprensive. Tutto da verificare, nella sua concreta tangibilità e nella sua praticabilità, quindi nella capacità di tradursi in carburante della politica dei tempi a venire. Ma senz’altro esistente, poiché il populismo dei giorni nostri non è solo la critica all’autoferenzialità delle élite, alle quali si contrappongono condotte che cancellano le regole, le norme e le mediazioni, ma anche il terreno sul quale diventa più facile ricostruire la storia, e quindi il passato, al pari delle visioni ed interpretazioni del presente, secondo esclusivi criteri di comodo. Non si tratta, in questo caso, di revisionismo, bensì di vero e proprio “reversionismo”. Atteggiamento che rimanda ad uno stile intellettuale per cui di quello che è stato nei tempi trascorsi non ci si assume la problematicità, la complessità e la stratificazione bensì solo ciò che può interessare sul momento. Conta il singolo “pezzo”, da prendere, esibire e usare a proprio beneficio. La storia si riduce a questa messa in scena. Già alcuni leader politici, con spiccate propensioni alla spettacolarizzazione scenica delle loro affermazioni, hanno rivelato di quale trama sia fatto questo modo di rapportarsi al passato come alla memoria di esso. Un modo ben più pericoloso di quanto non possa sembrare a chi volge a tali performance uno sguardo di superficie, frettoloso e di sufficienza. La logica che vi è sottesa, infatti, è quella che accompagna la pop-politica, dove tutto diventa intercambiabile, poiché qualsiasi affermazione può essere capovolta nel suo contrario e così via. Senza obbligo di razionalità alcuna, a parte l’ottusa riaffermazione dell’insindacabilità della propria posizione. Questa è la cornice nella quale un “nuovo” negazionismo potrebbe trovare un’insperata udienza. E qualche riscontro. Non perché la politica, ridotta a populismo, gli riconoscerebbe necessariamente qualsivoglia fondamento ufficiale, così nobilitandolo (obiettivo in sé al quale, peraltro, non è interessata), ma in ragione del fatto che le retoriche, le pratiche discorsive, le ellissi pseudo-dialettiche di cui si alimenta chi afferma che è falso ciò che è avvenuto, possono risultare congeniali al fittizio anticonformismo di chi cerca di captare, raccogliere e capitalizzare il crescente disagio. Che sia sociale, economico ma anche culturale. Il tutto sotto l’egida dell’angoscia da espropriazione, per un oggi che sembra di difficile gestione ed un futuro che si presenta come ancora più problematico. In altre pilpul già si è avuto il modo di argomentare sul nesso diretto tra un habitat comunicativo e informativo qual è il web, così come la cybersfera, e visioni complottistiche del mondo. Il negazionismo, la disintegrazione della ragione ma anche la banalizzazione, che del primo è una sorta di parente non troppo distante, pongono quindi una sfida, che piaccia o meno. Essa non riposa in ciò che dichiarano di avere ad oggetto, l’inesistenza dello sterminio razzista o la sua irrilevanza storica ai fini di un giudizio morale. Come il campo del negazionismo non è quello degli studi storici, e non ha quindi a che fare con la storiografia, così quello della banalizzazione non riguarda la dimensione etica da attribuire alla Shoah, fatto di cui peraltro fa strame. Semmai il punto è un altro: fino a quale punto potrà spingersi il tentativo di rompere il senso della condivisione di una storia che appartiene a tutti, decretandone invece l’irrilevanza e, quindi, l’estinzione in quanto “narrazione di parte”? Poiché se così fosse, mal ne deriverebbe alla stessa cittadinanza repubblicana e democratica. La battaglia è senz’altro politica, a patto che si riconosca che la fisionomia di ciò che è riconosciuto come lo spazio della «politica» sta velocemente cambiando, trasformandosi in un territorio sempre più impervio, dove l’aggressione si sostituisce alla mediazione mentre al legittimo conflitto si sovrappone l’annientamento del “nemico”. Che non è solo un atto materiale ma è prima di tutto un gesto simbolico, carico di conseguenze.

Claudio Vercelli

(3 gennaio 2021)