“Ebrei di Libia,
facciamoci sentire”

Nel 2014 il Parlamento d’Israele ha scelto la data del 30 novembre per ricordare l’esodo degli ebrei dai Paesi arabi e dall’Iran. Il 30 novembre gli ebrei di tutto il mondo devono ricordare il destino di oltre 850mila correligionari che furono perseguitati e cacciati da queste realtà a partire dagli Anni Quaranta.
La stragrande maggioranza di loro ha affrontato persecuzioni e violenze, è fuggita dalle proprie case e ha lasciato Paesi in cui aveva vissuto per secoli, addirittura millenni, unicamente a causa della sua identità. Emigrati in Israele, così come in Nord e Sud America ed Europa, gli ebrei originari dei Paesi arabi e dell’Iran hanno cercato di preservare il loro ricco patrimonio e la loro storia unica, portando con sé tradizioni, liturgia (piutim), usi e costumi e anche le tradizioni culinarie.
Un capitolo tragico e poco conosciuto della storia ebraica moderna.
Io sono uno di quegli 850mila profughi, scappato dalla Libia con la mia famiglia e tutta la comunità dopo l’ultimo pogrom di Tripoli e di Bengasi. In Libia eravamo cresciuti sotto la monarchia del re Idris che, dopo il pogrom del 5 giugno 1967, ci avvertì che non avrebbe più potuto garantire la nostra sicurezza quale minoranza ebraica. Ci aiutò quindi a scappare da quella terra divenuta ostile a causa dell’accanita propaganda del movimento legato a Nasser.
A seguito della Guerra dei Sei giorni la radio egiziana incitava all’odio incoraggiando l’eliminazione degli ebrei. Così la massa infuriata scese nelle strade a caccia degli ebrei rintanati in casa al buio e nel massimo silenzio, bruciando case e negozi e sterminando intere famiglie.
La rabbia divenne incontenibile a causa della vittoria di Israele e della sconfitta araba. A quel punto, per aver salva la vita, non restava altra scelta che quella di lasciare la Libia. Lasciammo il Paese con 20 sterline e ci fu detto di non tornare mai più. Nel 1969, con il colpo di Stato di Gheddafi, i nostri beni furono confiscati come beni nemici. Furono inoltre distrutti i luoghi di culto e rasi al suolo i cimiteri, antichi di duemila anni, in cui riposano, sotto gli attuali palazzi e autostrade, i nostri cari. La comunità ebraica libica si trasferì per la maggior parte in Israele e in Italia.
Tra le famiglie barbaramente uccise ricordo quella Luzon di Bengasi. Il padre Shalom Luzon z.l. la madre Zachia Luzon Hackmun z.l. e i sei figli David z.l. Rafael z.l. Yosef z.l. Meir z.l. Ariel z.l. e Avraham z.l sono stati sterminati. Solo una figlia, Luzon Giohra Perla, si salvò perché viveva a Tripoli con il marito Simon Haggiag e le loro due figlie Vivien e Gladys. Anche loro si trasferirono come molti di noi a Roma, dove sono nati il loro terzo figlio Shalom nel 1967, i nipoti e la pronipote.
Nonostante la tragedia che ha vissuto e dalla quale è stata segnata, come molti ebrei della storia, oggi grazie a D.O, Giohra Perla Luzon è riuscita a diventare bisnonna continuando con orgoglio una discendenza ebraica. La ricordo sin da bambino come una donna solare, piena di gioia di vivere e di amore per il prossimo, consapevole del suo dolore muto. Una donna che non si è mai autocommiserata, né mai fatta compatire. Al contrario ha affrontato la vita a testa alta e con la massima dignità, come solo una vera donna di valore (Eshet Hail) può essere in grado di fare.
Sono passati 53 anni e finora dalla Libia non c’è stato nessun riconoscimento e nessun risarcimento per i danni morali, psicologici e fisici subiti. Da buoni ebrei resilienti ci siamo rimboccati le maniche impegnandoci a ricostruirci una nuova vita altrove, con onestà e dignità. Abbiamo studiato e imparato nuove lingue allo scopo di integrarci nel tessuto sociale di riferimento.
In Israele gli ebrei scappati dalla Libia furono accolti non come plitim (profughi) ma come Olim Hadashim (nuovi emigranti), ricevendo cittadinanza israeliana ed agevolazioni, sia per lo studio che per il lavoro.
Ricordo che la Joint (The American Jewish Joint Distribution Committee) e la Hias (Hebrew Immigrant Aid Society) ci diedero aiuto per lasciare il Paese e un sostegno per un iniziale inserimento nel paese di accoglienza, offrendoci un soggiorno di una settimana in albergo. Bino Meghnagi, un intraprendente e generoso ebreo di Libia, appena arrivato a Roma prese contatto con la Joint, che gli diede carta bianca per aiutare un migliaio di profughi ad essere accolti nei campi di Napoli, Capua e Latina, tra i quali anche feriti e malati.
Il colonnello del campo fu felice di vedere l’intraprendenza dei profughi ebrei nel dare una mano ai contadini della zona. Lo stesso Bino, assieme al comitato degli ebrei di Libia, riuscì ad organizzare anche la Kasherut. Il colonnello mise a disposizione un intero capannone. L’Ose si occupò di assistenza sanitaria. Bino, con il comitato di assistenza e attraverso il sostegno della Joint, riuscì a far iscrivere i giovani nelle scuole ebraiche. E cosi da un giorno all’altro, arrivati in Italia, ricevemmo la carta del rifugiato dell’Unhcr.
Gli ebrei di Libia, di cui faccio parte, vivono a Roma dal 1967 e si sono integrati con successo nella comunità ebraica locale. Abbiamo passato 53 anni di vita in Italia, molti dei nostri si sono sposati con iscritti alla Comunità e hanno avuto figli da “matrimoni misti”, celebrato bar mitzvah, studiato nelle scuole. Sono diventati intellettuali, imprenditori, liberi professionisti, medici. I nostri anziani, quando ci hanno lasciato, sono stati sepolti in un cimitero ebraico.
Con alle spalle la nostra storia plurimillenaria, abbiamo continuato la nostra vita in Italia. Un paese democratico che ci ha accolto a braccia aperte in un momento di estrema difficoltà.
L’Onu si è limitato a riconoscere i profughi palestinesi, ma deve riconoscere i rifugiati ebrei dai Paesi arabi perché anche noi, come loro, abbiamo sofferto. Purtroppo siamo i profughi dimenticati.
Non si ascoltano le nostre storie negli incontri dell’Unione Europea né si vedranno mai, esposte nei corridoi delle Nazioni Unite, mostre fotografiche di tutte queste comunità. Così come, tra le migliaia di risoluzioni discusse e approvate negli ultimi settanta anni dall’Onu, non si troveranno da nessuna parte i nomi delle nostre famiglie, dei nostri cari antenati e dei nostri capitali confiscati e distrutti. Per l’Onu non esiste un giorno speciale dedicato alle nostre comunità o alla memoria di noi, 850mila profughi ebrei.
Siamo profughi dimenticati perché non abbiamo fatto abbastanza rumore. Il nostro silenzio deriva dal fatto di aver investito il tempo, le energie e gli sforzi per rifarci una vita in modo onesto e senza disturbare nessuno.
Oggi molti di quei profughi arrivati in Italia con venti sterline sono una una risorsa per le società in cui vivono perché riescono a dare lavoro a tante famiglie, contribuendo al progresso e allo sviluppo dell’economia. Penso alla storia di Daniele Raccah, nato a Tripoli, oggi cittadino italiano, padre, marito e nonno che è partito da zero e che, dopo anni di duro e onesto lavoro, è riuscito a costruire un’azienda di abbigliamento da uomo di grande successo,
Per noi comunque la lotta andrà avanti, perché la storia non può essere dimenticata. A tal proposito è importante ricordare che esiste anche gente aperta alla democrazia e disposta ad ammettere le ingiustizie storiche irrisolte. Tra questi il presidente del partito democratico di Libia Ahmed Shebani che, lo scorso 30 novembre, ha inviato una lettera di condanna per i torti subiti ed espresso l’intenzione di risarcire i danni inflitti.
Sono momenti che ho vissuto bambino e non ho mai dimenticato. Ricordo quando venivano bruciati i negozi e le case degli ebrei di fronte a casa mia. Una folla inferocita si incamminava nelle strade urlando e sottolineando le proprie intenzioni con un gesto della mano che passava sulla gola: “Uh Uh al Jehud Edbah al Jehud”, “Sgozzate gli ebrei, morte agli ebrei”. In silenzio, in quella calda estate, noi restavamo nascosti, dentro le nostre case con le finestre e le persiane completamente chiuse. Soffocando dall’afa e in preda alla paura perché non potevamo prevedere il nostro destino.
Vi chiedo: come vi sentireste se, oggi, dal luogo in cui vi trovate, vi dicessero che dovete lasciare tutto all’improvviso o altrimenti potreste essere perseguitati, incarcerati o messi a morte? Se vi si dessero poche ore per mettere in valigia, stipandovi più cose possibili, il vostro mondo? Come vi sentireste se da una notte all’altra improvvisamente vi trovaste in un altro Paese? Questa è stata la tragedia degli ebrei perseguitati ed espulsi dai Paesi islamici. Ma forse è la tragedia di tutti i rifugiati che soffrono in silenzio.
L’ultima ebrea di Libia, mia zia Rina Debach z.l. è stata ritrovata per caso in un ospizio a Tripoli. Era il 2002. Dopo lunghe trattative con Gheddafi sono riuscito a farle visita, nei panni sia di psicologo che di parente. Ciò grazie a un visto concesso per ragioni umanitarie. L’anno successivo si è ricongiunta con la famiglia a Roma.
Zia mi aveva chiesto di non essere lasciata sola, esprimendoi l’intenzione di partire (aveva allora ottanta anni) con me. Io ero consapevole che non esisteva più in Libia un cimitero ebraico. Esattamente quaranta giorni dopo si è spenta a Roma e ora riposa in pace in quello di Petah Tikva in Israele.
Il 30 novembre scorso un grande evento trasmesso in diretta da Israele ha avuto un vasto seguito nel mondo. Le varie comunità di quel mondo scomparso si sono incontrate e conosciute, godendo uno spettacolo fatto di interviste, canti, racconti e tante bellissime sorprese. Nel frattempo a Roma Lillo Naman, il presidente del tempio tripolino Beth Shmuel fondato dal padre Shmuel z.l., si è preoccupato di organizzare un kaddish che è stato recitato in memoria di tutti i nostri cari sepolti in Libia.
Mi ha invitato ad andare al cimitero ad accendere un lume, sotto il monumento dedicato alla nostra comunità. Lì ho portato la lista delle persone da ricordare inviatami dal museo di Or Jehuda di Israele, il più grande museo degli ebrei di Libia.
Oggi a Roma vi sono sette sinagoghe con il rito sefardita orientale degli ebrei di Libia, dislocate in varie zone della città, che custodiscono e tramandano le nostre tradizioni. In Israele le sinagoghe con rito sefardita di origine libica sono ottanta. Ristoranti casher in cui si degustano i cibi libici si trovano sia a Roma che in Israele. Così come market kosher dove si possono trovare le spezie e il nostro cibo tipico.
Nonostante l’odio gratuito e ingiustificato che ha creato tanta sofferenza, ho cercato di trasformare la mia ferita di profugo in una missione alla quale mi sono dedicato tutta la mia vita. Continuerò a dedicarmi alla ricerca della giustizia, perché l’ingiustizia non va in prescrizione.
Il mio obiettivo è di costruire un monumento a Tripoli, Homs, Yefren e Jado per le persone che vi sono sepolte, restaurare i quattro cimiteri e le tre sinagoghe, con la speranza che un giorno accada il miracolo della pace e della stabilità che ci permetta di andare liberamente a pregare per i nostri cari e visitare il luogo in cui siamo stati violentemente sradicati dalle nostre radici. Tra le altre cose di cui mi sto occupando e che mi sta a cuore c’e’ il recupero della cittadinanza attraverso l’aiuto di uno studio legale italo-libico. Un’altra ingiustizia che non va in prescrizione e che deve essere riparata, dandomi ciò che mi spetta di diritto.
Concludo sottolineando che assistiamo in questi mesi al miracolo della normalizzazione dei rapporti di Israele con il mondo arabo. È la scelta intrapresa da Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e dal Marocco. Il sostegno dato agli Accordi di Abramo fa sperare che anche l’Oman presto possa andare in questa direzione. Spero che presto possa succedere qualcosa del genere anche con la Libia. Il Paese in cui sono nato e che amo.

(Nell’immagine titoli attestanti le proprietà dei Gerbi in Libia, da dove furono cacciati nel ‘67)

David Gerbi, rappresentante dell’Organizzazione mondiale degli ebrei di Libia
Pagine Ebraiche gennaio 2021

(4 gennaio 2021)