Il direttore dell’ADL
a Pagine Ebraiche
“Usa, ora ricuciamo le ferite”

“L’obiettivo finale dell’Anti-Defamation League è un mondo in cui nessun gruppo o individuo soffra a causa di pregiudizi, discriminazioni, odio”. Pone molto in alto l’asticella Jonathan Greenblatt quando parla degli obiettivi della sua organizzazione, l’americana Anti-Defamation League (ADL). Ma dietro questa affermazione dai toni utopistici c’è un ente ebraico con oltre un secolo di storia, di lavoro concreto sul territorio, di battaglie vinte contro l’antisemitismo e contro ogni forma d’intolleranza. Con un passato da imprenditore e da consigliere dell’amministrazione Obama per l’Innovazione sociale, Greenblatt nel 2015 ha raccolto la guida di questa storica organizzazione, criticando il suo ex capo in merito al trattato nucleare iraniano, intervenendo poi a più riprese sulla presidenza Trump quando sono mancate la condanne all’estremismo di destra, e avviando una campagna per chiedere ai social network di non usare l’odio come strumento di profitto. Tutti temi di cui Greenblatt ha parlato con Pagine Ebraiche, in questo momento importante e di cambiamento per gli Stati Uniti con l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden.

A settembre il direttore dell’FBI ha dichiarato che “l’estremismo violento a sfondo razziale”, soprattuto da parte dei suprematisti bianchi, è la più grave minaccia terroristica interna. È d’accordo?
Il direttore dell’FBI ha ragione al 100%. I dati e le ricerche dell’ADL dell’ultimo decennio lo confermano: tra gli omicidi compiuti da estremisti, tre quarti di quelli commessi sul suolo americano sono legati alla destra. L’estremismo interno di destra è sempre stato un tema centrale della sicurezza nazionale americana, ma è stato ignorato, o almeno messo in secondo piano, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre. I gruppi d’odio ed estremisti sono cresciuti in termini numerici durante l’amministrazione Obama, in gran parte a causa della reazione razzista degli Stati Uniti all’elezione del loro primo presidente nero. L’elezione di Donald Trump nel 2016 è servita per certi versi a far capire a molti estremisti di destra che le loro idee non erano così marginali come avrebbero potuto pensare. Se a ciò si aggiunge la retorica divisiva e provocatoria del Presidente, nonché le politiche anti-immigrazione, ciò non fa che rafforzare ulteriormente questa idea. Aggiungete il fatto che sotto l’amministrazione Trump le priorità e i finanziamenti del Dipartimento per la sicurezza interna si sono spostati massicciamente verso il terrorismo islamico straniero.. L’attuale rinascita dell’estremismo di destra non può essere uno shock per chi ha prestato attenzione.

Come giudica il lavoro dell’amministrazione Trump nella lotta contro l’antisemitismo?
Valutare semplicemente il lavoro di un’amministrazione nella lotta contro l’antisemitismo è un modo un po’ imperfetto di vedere la questione, e troppo spesso trasforma il popolo ebraico in un pallone da calcio politico. Abbiamo applaudito il trasferimento dell’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme da parte dell’amministrazione Trump e la nomina di un inviato per l’antisemitismo presso il Dipartimento di Stato. Non c’è dubbio che l’amministrazione Trump abbia adottato un approccio molto pro-Israele in politica estera in Medio Oriente, ma la lotta contro l’antisemitismo va ben oltre il semplice sostegno allo Stato ebraico. Come ha documentato l’ADL, gli incidenti antisemiti sono aumentati negli ultimi quattro anni, raggiungendo il massimo storico nel 2019. Questo non è semplicemente dovuto alla retorica divisiva e a volte intollerante del presidente Trump, poiché il problema dell’aumento dell’antisemitismo va al di là di una sola persona, ma non possiamo ignorare il rifiuto di Trump di rinnegare il suprematismo bianco in diverse occasioni, anche dopo il raduno di Unite the Right a Charlottesville, che ha incoraggiato antisemiti e altri estremisti.

Cosa vi aspettate ora dal Presidente Biden?
La nostra speranza è che l’amministrazione Biden-Harris prenda provvedimenti per portare unità e raffreddare la temperatura politica nel nostro Paese, prendendo anche misure proattive per combattere l’antisemitismo in patria e all’estero. Non vediamo l’ora di lavorare con l’amministrazione entrante in questa lotta, perché ci vorranno tutti, politici a parte, per sconfiggere la piaga dell’antisemitismo.

In un’intervista del 2015 aveva detto che il problema dell’antisemitismo in Europa (era l’anno degli attacchi terroristici a Parigi) la teneva sveglia la notte. Ha visto qualche cambiamento a riguardo?
Ci sono stati alcuni cambiamenti, sia positivi che negativi, ma questo è ancora un problema che mi tiene sveglio la notte. In un’indagine del dicembre 2018 sulle esperienze e le percezioni dell’antisemitismo in Europa, l’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea ha rilevato che l’89% degli ebrei che vivono in Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Svezia, Regno Unito e Ungheria ritengono che l’antisemitismo sia aumentato nel loro paese nell’ultimo decennio, mentre l’85% ritiene che sia un problema serio. Quasi la metà si preoccupa di essere insultato o molestato in pubblico perché è ebreo, e più di un terzo teme di essere attaccato fisicamente. Questi sentimenti e queste convinzioni sono giustificati dall’aumento di attacchi e incidenti antisemiti in diverse nazioni europee.
Secondo l’ultimo Global 100 dell’ADL del novembre del 2019, circa un europeo su quattro ha avuto esperienza di atteggiamenti dannosi e pervasivi nei confronti degli ebrei. È assolutamente spaventoso che l’Europa stia vedendo ancora una volta un aumento del sentimento e del comportamento antisemita, data la storia non troppo lontana della Shoah.

Qual è la connessione tra le forme di odio che vediamo online e il tipo di attacchi violenti che si verificano nella vita reale?
Purtroppo, abbiamo visto una connessione diretta. Troppo spesso gli individui vengono radicalizzati online consumando materiale d’odio non regolamentato e non filtrato sui social network e poi agiscono. Che si tratti di Pittsburgh, Christchurch, Poway o El Paso, continuiamo a vedere lo stesso scenario omicida che si ripete all’infinito: individui che si radicalizzano in spazi online dedicati a idee estremiste e odiose, la pubblicazione di una sorta di manifesto o di richiamo all’azione, e poi, alla fine, un attacco violento. Ecco perché è così importante che le nostre grandi aziende di social media, come Facebook e Twitter, facciano la loro parte morale e creino ambienti che non possano essere contaminati da queste idee. Si può farlo implementando e facendo effettivamente rispettare i termini dei contratti di servizio, assumendo più moderatori di contenuti e riparando gli algoritmi che manipolano e spingono gli individui nelle profondità della proverbiale tana del coniglio.

Ritiene che Facebook e altre piattaforme dovrebbero avere un ruolo nel dire quali sono i contenuti accettabili o meno? O spetta a un’autorità terza?
Non sta a noi dire se dovrebbero avere un ruolo o meno. Il gatto è già fuori dal sacco. Queste aziende sono giganti con centinaia di milioni di utenti, quindi per default hanno un ruolo da svolgere, che gli piaccia o meno. Ci sono ruoli da svolgere per il governo, così come per terzi, come ADL e altre organizzazioni non profit per i diritti civili, ma in ultima analisi la responsabilità di fare la cosa giusta spetta alle aziende stesse.

In un recente editoriale su Tablet Magazine Bari Weiss ha sostenuto che la libertà d’espressione sia in pericolo negli Stati Uniti, come tutti i valori del liberalismo americano, e ha scritto che questo ha implicazioni pericolose soprattutto per gli ebrei. Vede questo rischio?
Dobbiamo rimanere vigili nel preservare i nostri diritti costituzionali fondamentali, tra cui la libertà di espressione. Noi dell’ADL ci crediamo fermamente e sosteniamo e sosterremo sempre il diritto alla libertà di parola, ma la libertà di parola non è la libertà di calunniare, né la libertà di incitare all’odio o alla violenza. Dobbiamo essere in grado di differenziare efficacemente le due cose per poter avere una solida conversazione sulla questione. Troppo spesso la linea è confusa e si perde di vista il vero pericolo.

Dopo le elezioni tutte le analisi concordano nel definire gli Stati Uniti un Paese diviso, ma sembra un problema comune. In Israele, il presidente Reuven Rivlin ha definito “la lotta interna” come “ una minaccia maggiore delle bombe nucleari o del terrorismo”. Quanto i nostri leader sono responsabili di queste divisioni? Cosa si può fare per fermare questo declino?
Spetta a tutti i leader abbassare la retorica odiosa e divisiva e raffreddare la temperatura politica, che sia qui negli Stati Uniti o in Israele, o in qualsiasi altra parte del mondo. Se cerchiamo solo di ritirarci nelle nostre confortevoli echo-chamber e non ascoltiamo coloro con cui potremmo non essere d’accordo, non faremo alcun progresso come popolo. Nei Paesi liberi, i leader sono eletti dal popolo per servirlo tutto. Saremmo degli sciocchi a pensare che le divisioni in questo Paese si saneranno in fretta sotto una nuova amministrazione, così come saremmo degli sciocchi a pensare che queste divisioni siano state create dall’amministrazione precedente. Questi problemi sono radicati nei nostri sistemi e nella nostra società, e la loro soluzione inizia da coloro che scegliamo di servire. Non accadrà da un giorno all’altro, ma con uno sforzo collettivo di persone di buone intenzioni, che credo siano la maggior parte, possiamo fare un vero cambiamento e creare una società più equa e giusta per tutti.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Gennaio 2021

“I social lucrano sull’odio, fermiamoli”

“È evidente che Facebook, Twitter, YouTube e altri sono in difficoltà nel mantenere le loro piattaforme sicure per le comunità più emarginate. Spesso si creano spazi dove le voci più forti ed estreme prosperano. Da qui è nata la nostra campagna Stop Hate for Profit, che l’obiettivo di rendere queste grandi aziende tecnologiche responsabili nei confronti dei loro utenti e delle loro comunità. Essenzialmente diciamo: ‘Se non volete risolvere i vostri problemi perché è la cosa giusta da fare, vediamo cosa succede quando gli inserzionisti cominciano ad andarsene’”.
Jonathan Greenblatt racconta così la genesi della campagna Stop Hate for Profit. L’iniziativa, lanciata in estate dall’ADL assieme ad altre organizzazioni, parte dalla consapevolezza che spesso i contenuti più condivisi sul web sono anche quelli più estremi e polarizzanti. La loro viralità ha un valore economico per Facebook e gli altri giganti del web. Lo spiega bene il documentario The Social Dilemma: le grandi aziende lottano tra di loro per conquistare l’attenzione del pubblico, laddove l’attenzione è l’elemento cruciale per poi monetizzare attraverso sottoscrizioni e pubblicità. I contenuti più condivisi sono quelli che attirano più facilmente la nostra attenzione (seppur non gli unici) e così il cerchio si chiude. Da qui la campagna Stop Hate for Profit, che colpiva soprattutto Facebook, chiedendo ai grandi inserzionisti di non finanziare pubblicità sulla piattaforma. E così è stato. La campagna è stata un enorme successo, che ha visto la partecipazione di importanti aziende della Fortune 500 come Coca-Cola, Unilever e Verizon, nonché di celebrità e personaggi influenti con decine di milioni di seguaci, come Kim Kardashian West, Sacha Baron Cohen e Kerry Washington, che insieme hanno detto “quando è troppo è troppo”, spiega Greenblatt. “Avevamo una lista di richieste che si possono trovare sul nostro sito web su #StopHateForProfit, e Facebook ha lentamente iniziato a soddisfarne alcune. Hanno ancora molta strada da fare, ma siamo fiduciosi che la nostra campagna, insieme alla continua pressione di inserzionisti, celebrità, influencer e pubblico in generale, porterà queste aziende a soddisfare il loro obbligo morale di creare uno spazio online sicuro per i suoi utenti”. Il direttore dell’ADL poi aggiunge: “Al netto di un’attività di sorveglianza sui contenuti pubblicati dagli utenti, si chiede alla piattaforma un cambio di passo nella gestione etica di se stessa. Nello specifico non incitare, amplificare e (indirettamente) stimolare dibattiti su temi che portano alla polarizzazione, all’incitamento alla violenza verbale, il tutto per creare engagement e, di rimando, profitti. Falsità e cospirazioni sul Covid-19, sui vaccini, climate change e la Shoah sono considerati argomenti di conversazione. Le vittime di molestie online sono lasciate virtualmente senza alcuno strumento di difesa”. Ma serve un cambio di passo.