Il rischio autoritario
Il 2021 si apre con un augurio universalmente condiviso: uscire una volta per tutte dall’incubo del Covid-19. La speranza è che una vaccinazione di massa possa sospingere nel passato la pandemia e rilanciare verso il futuro le prospettive di miglioramento e di sviluppo che si erano improvvisamente bloccate un anno fa. Il pericolo è che – nonostante questa ci appaia oggi come la più rosea delle aspettative e ci sembri ancora straordinariamente lontana, immersi come siamo sino al collo nella melma mortale del contagio – tutto ciò non basti. Che non sia sufficiente, cioè, la fine della circolazione della malattia per rigenerarsi; che, anzi, la scomparsa del rischio epidemico porti alla cessazione di ogni remora nel comportamento collettivo, allo sfogo di impulsi repressi per tanti mesi, alla perdita di atteggiamenti riflessivi e di ogni senso del limite.
Forse è un timore eccessivo dettato da sfiducia nel genere umano, forse però a sostenere il mio pessimismo di fondo ci sono alcune solide considerazioni. Innanzitutto il male non era/non è l’agente patogeno, il male vero tra noi lo produciamo noi stessi nel nostro vivere sociale, e si chiama disprezzo dell’altro, offesa al più debole, ingiustizia e diseguaglianza tra pari, assenza di libertà, oppressione. Inoltre, temo che la sofferenza globale per la pandemia abbia attenuato la nostra capacità di cogliere-condannare-combattere il male sociale; l’attenzione universale si è concentrata sul contagio, sul modo di sfuggirgli e di sconfiggerlo; la critica alla visione politica e ai programmi sociali ha perso rilevanza, e anche la politica si fa oggi col virus e con l’antivirus.
Così il mondo, rintanato dietro una metaforica mascherina, non reagisce adeguatamente alla tirannide sanguinosa di molti Stati, soprattutto se sono potenze economiche dominanti o se il legame con i loro sistemi politico-economici tocca interessi ritenuti essenziali: basta pensare a Cina, a Iran, a Turchia, a Russia, ma forse anche all’Egitto, e a come i loro apparati statali facciano scempio delle libertà individuali e collettive senza che nelle istituzioni internazionali si levi un’ autentica ed efficacie opposizione. Perché, ad esempio, di fronte ai casi Regeni e Zaki l’Italia non ha il coraggio di usare con forza le armi della diplomazia nei confronti un regime che usa l’arresto, la tortura, l’omicidio, la detenzione illegale come strumenti di potere?
Il silenzio globale significa sostanziale assenso. La mancata reazione politica contro i sistemi di potere autoritari da parte della maggior parte dei governi è molto pericolosa: genera assuefazione di massa all’autoritarismo, forse persino apprezzamento per i regimi forti capaci di indurre all’ obbedienza i loro cittadini, certo disaffezione nei confronti della democrazia e dei suoi metodi, convinzione dell’utilità collettiva del decisionismo di fronte a futuri rischi generalizzati.
Il problema è proprio questo. Se è possibile imparare qualcosa dall’esperienza Covid, dobbiamo prevedere che il futuro purtroppo ci riserverà altre sorprese del genere: pandemie affini o di altro tipo, malattie diffuse, eventi di massa non facilmente controllabili. Di fronte a questi rischi occorrono essenzialmente organizzazione, coordinamento, disciplina; atteggiamenti prodotti facilmente da strutture accentrate e accentratrici e tali da favorire quel tipo di potere. La nostra democrazia, la società aperta in genere – molto libera e un po’ caotica – rischia di essere poco adatta ai futuri pericoli globali. Occorrerà che la riflessione, la pratica sociale, una politica non egoistica sappiano superare la minaccia di un centralismo emergente per rivitalizzare e rendere più efficiente la democrazia debole e malata dei nostri giorni.
David Sorani
(5 gennaio 2020)