Ticketless – La misura dell’inatteso

Quando uscirono le lettere dal carcere di Vittorio Foa (1998), nessuno si accorse che questa fonte è la più ricca che si conosca per seguire passo dopo passo l’evolversi della campagna razziale: dalla prima lettera, datata 17 maggio 1935, fino all’applicazione delle norme persecutorie, Foa misura in presa diretta la crescita della febbre razzista. “Lucidità, pugnacità e volontà di capire” le tre qualità maturate in carcere, ci dice ora Antonio Bechelloni (Vittorio Foa, Torino, Raineri Vivaldelli editore, 2020). Questo libro, anche per le sue dimensioni, non è una biografia nel senso stretto della parola, ma aiuta a mettere in chiaro gli snodi più controversi. Gli anni di galera vanno suddivisi in parti non sempre omogenee fra loro (“Otto anni non sono pochi”, uno dei capitoli centrali). Quando entra in carcere si era nel maggio 1935, all’indomani degli arresti di Ponte Tresa e della prima campagna antisemita, ma nulla lasciava prevedere quanto sarebbe accaduto nei mesi successivi. Queste lettere di Foa sull’antisemitismo del Duce sono davvero tantissime, spesso si contraddicono tra loro, non per l’inadeguatezza di chi le scrive, tutt’altro, ma perché la realtà era contraddittoria e ondivaga: bisogna dunque saperle rileggere in modo complessivo, non soltanto, come vedo fare spesso, per quello che certo dicono e noi vorremmo che dicessero (la durezza e la brutalità di quella campagna, la sua precocità), ma anche per quello che pure dicono, ma ci viene scomodo ammettere che dicano: per esempio sconsigliare qualsiasi forma di retrodatazione o escludere la sudditanza verso la Germania. Ancora il 29 luglio 1938, Foa ad esempio scrive che in Italia “non è mai esistito e non esiste sentimento antisemita altro che in pochi gruppi di intellettuali invidiosi e consapevoli della loro mediocrità”. Un anno prima, il 16 aprile 1937, commentando il libro di Orano, Foa sostiene una tesi che, se la ripetessimo noi oggi, rischieremmo di essere presi a sassate, vale a dire la disponibilità delle sfere dirigenti italiane a voler salvare “capra e cavoli e cioè la propria coscienza ed il dovuto inchinevole riguardo al verbo di Berlino”.

Alberto Cavaglion