Machshevet Israel
Narciso nel Talmud

Il mito greco di Narciso ha influenzato una lunga lista di poeti e filosofi: solo in età contemporanea lo hanno rivisitato Valéry e Rilke, Williams e Garcia Lorca, Borges e Pasolini. Come ha scritto Sonia Macrì, la storia di questo bellissimo giovane, figlio di una ninfa e di un dio fluviale, quasi non ha trama: specchiatosi in acque di fonte, si innamorò di se stesso e presso quella sorgente morì d’amore, per se stesso. Già Pausania, scrivendo nel II secolo e.v. (all’epoca della redazione della Mishnà), senza ironia commenta “che è del tutto sciocco pensare che una persona adulta cada innamorata e non sia capace di distinguere tra un’immagine e una persona reale” (Guida della Grecia IX). Pochi sanno che anche nel Talmud esiste una specie di mito di Narciso, ma con tutt’altro finale. La controstoria si trova nel Talmud Bavli, trattato Nazir 4b, perché viene citata come esempio di nazireato virtuoso da Shim’on haZaddiq: in quanto sacerdote, questi di solito si rifiutava di mangiare le offerte al tempio dei nazirim, perché dubitava fossero sincere, ma fece un’eccezione quando sentì la storia di un ‘giovane del Sud’, bello sotto tutti gli aspetti e con una chioma piena di boccoli ben tenuti… Perché, gli chiese, voleva sacrificarla diventando un nazir? Il racconto del giovane è semplice: era un pastore che pascolava le sue pecore, quando andò a bere a una fonte e si vide nello specchio d’acqua: “Allora – si legge nel Talmud – il mio cattivo istinto (yizrì) sorse contro di me e cercò di spingermi fuori dal mondo. Allore gli dissi – reqà, stolto! – di cosa ti vanti in un mondo che non ti appartiene e dove finirai tra i vermi? Per amore del Cielo, ti farò tagliare i capelli”. Shim’on haZaddiq baciò quel giovane in fronte e riconobbe in lui un nazir autentico.
La storia talmudica, commentata anche da Emmanuel Levinas, è speculare al mito greco: iniziano allo stesso modo – un giovane che si specchia nell’acqua – ma, a differenza del semidio greco, il giovane pastore ebreo riconosce l’ambiguità propria bellezza e il rischio dell’autocompiacimento indotto da ogni jezer ra’, da ogni ‘cattiva inclinazione’: pensare che il mondo giri intorno a noi, che noi si sia la ragione stessa per cui il mondo esiste, dimenticare il vero perché siamo al mondo. L’espressione rabbinica ‘essere spinti fuori dal mondo’ equivale a: cedere alla trasgressione, sbagliare strada, perdersi. Per ‘restare nel mondo’ occorre pensarsi non in termini di autosufficienza e autoreferenzialità ma in termini di relazione e di dialettica. I maestri di Israele pensano l’essere umano in modo realistico e complesso, costituito da una inclinazione al bene e un’inclinazione al male che va tenuta sotto controllo. Non pensano che quest’ultima sia di per sé un male, ma sanno che può farci agire male, e ‘spingerci fuori dal mondo’ se non la mettiamo, a sua volta, al servizio di una causa buona. Lo yezer ra’, per i maestri, non va estirpato – ciò sarebbe irrealistico e, a suo modo, innaturale – ma può essere bilanciato e posto sotto controllo. È esattamente quel che fece il giovane del Sud, che dominò il proprio yezer ra’ con un realistico senso della propria finitezza, persino della propria miseria. Diventare nazir è stata una risposta al suo istintivo narcisismo: non curarsi più della propria chioma e lasciarla crescere senza più guardarsi allo specchio… Ecco il segno di un’autodisciplina che riporta tutto lishmà – dice il Talmud – ossia “all’amore del Nome”, in un servizio disinteressato al Cielo.
Dicevo che Puasania è stato privo di ironia, affermando che un vero uomo sa sempre distinguere tra immagine e realtà. Purtroppo non è così. Sono molti coloro che scambiano un’immagine – o le immagini di sé che proiettano nel mondo, che vorrebbero veder affermate e riconosciute, che vorrebbero ‘vincenti’ – per la realtà, e finiscono per lavorare non per il bene di tutti ma solo per la propria immagine. Il simbolico suicidio del Narciso greco è dunque una forma di asfissia spirituale, di autosoffocamento estetico, di rinuncia a credere che la realtà sia più grande di noi stessi. Ma l’altro non è una proiezione di noi stessi; in quanto ‘altro da noi’, sfida il nostro ‘io’ o il nostro ‘noi’ sollecitandolo a cercare un ‘io’ e un ‘noi’ meno compiacente, meno autoassolutorio, meno concentrato su di sé. L’apertura all’in-assimilabile e la disponibilità all’in-soddisfazione sono i sigilli della nostra trascendenza, spiega proprio Levinas, perché “l’infinito eccede il pensiero che lo pensa… e se l’esperienza significa appunto relazione con l’assolutamente altro – ossia con ciò che eccede sempre il pensiero [che è riflessione, specchiamento, duplicazione del mondo, come nell’atto istintivo di Narciso sull’acqua] – allora la relazione con l’infinito costituisce l’esperienza per eccellenza” (così scrive il filosofo ebreo francese nella prefazione al suo capolavoro Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità del 1961). Narciso ha visto nella propria immagine la totalità e ha perduto l’infinito; il giovane ebreo del Sud, raccontato da Shim’on haZaddiq, ha piegato la sua apparente totalità con un atto di riconoscimento della propria finitudine e ha rimesso se stesso in relazione con il vero centro del mondo, salendo al Tempio a fare il proprio voto.

Massimo Giuliani, Università di Trento