Un Presidente divisivo

Le immagini a Capitol Hill, drammatiche e foriere di un grave pericolo non solo per gli Stati Uniti, colpiscono per molti aspetti diversi, fuori dall’ordinario.
Il Presidente americano ha convocato e arringato i suoi sostenitori per incitarli a non accettare l’esito delle elezioni del 3 novembre scorso. Trump ha per due mesi dichiarato che il processo elettorale era fraudolento e corrotto, nonostante numerosi tribunali abbiano respinto i ricorsi da lui promossi e lo stesso suo ministro della Giustizia abbia dichiarato che le elezioni si erano svolte con regolarità. Il primo garante della Costituzione ha continuato anche ieri davanti ai suoi sostenitori ad attaccare le istituzioni e i processi democratici americani. C’è stata quindi una responsabilità diretta di questa protesta che il Presidente eletto Joe Biden ha definito una insurrezione.
Il secondo aspetto che ha particolarmente colpito è la natura variegata e quasi folkloristica della folla che ha assaltato il Campidoglio: personaggi mascherati, altri abbigliati come teddy boys che hanno lasciato da poco la loro Harley-Davidson, molti con giacche militari e altro abbigliamento tattico. Le bandiere a stelle e strisce accanto a quella dei confederati, le croci e gli incappucciati del KKK; nessuno con la mascherina antivirus, più armi da fuoco e ordigni pericolosi. Gente davanti alla quale un passante sul marciapiede fuggirebbe per paura. Eppure questa popolazione, prevalentemente del Sud e del mid-west degli Stati Uniti, è quella che ha trovato in Donald il suo rappresentante, colui che gli ha dato voce.
Il terzo aspetto che ha colpito è stata la facilità con cui i facinorosi sono entrati nel Palazzo del Congresso, i primi rompendo finestre e arrampicandosi sui muri, altri forzando i cordoni degli agenti a protezione dell’edificio. Appare strano come dopo l’11 settembre possa essere così facile introdursi nel cuore delle istituzioni americane con un’azione violenta. Tre giorni fa il sindaco di Washington aveva chiesto lo schieramento della Guardia Nazionale, che dipende dal Ministero della Difesa. In tutti gli Stati la prerogativa di chiamare la Guardia Nazionale spetta al governatore, ma a Washington D.C. questa decisione spetta al Presidente degli Stati Uniti e Trump non ha acconsentito alla richiesta del sindaco. Questo episodio non può spiegare per intero l’inadeguatezza della sicurezza del Parlamento, probabilmente la cosa dovrà essere investigata con serietà e fermezza.
La domanda che credo molti si facciano è se la folla davanti alla Casa Bianca, di cui solo una parte ha condotto l’assalto al Congresso, è espressione dei 74 milioni di voti ricevuti da Trump o solo di una parte di essi.
Quel che si continua ad affermare è che l’Unione è spaccata 51,6% per Biden 48,4% per Trump. Che lo si voglia o meno Trump è il repubblicano che ha conseguito il maggiore consenso della storia (ugualmente si può dire per Biden che ha ricevuto 81,5 milioni di voti) e con lui che ci si deve misurare in futuro.
Ciò che è stato ripetuto durante quasi tutto il periodo della sua Presidenza è che Trump è stato un Presidente divisivo, che ha deliberatamente condotto una politica per dividere il Paese tra chi era con lui e chi gli era contro. Questa politica la continuerà anche fuori dalla Casa Bianca, e questo rappresenta un grave pericolo per gli Stati Uniti, che vogliono essere i leader del Mondo.
La narrazione Trumpiana, dicono gli esperti, parla al popolo minuto dell’America profonda, ai milioni di cittadini sperduti nell’immenso territorio compreso tra le due coste cosmopolite, lontano dalle città su cui si fonda la cultura dell’occidente contemporaneo: la Los Angeles del cinema; la New York della televisione e dell’editoria; il New England delle principali università del Globo; la Washington della politica. Questi cittadini “incolti”, che si sentono abbandonati dalle elites, sono consapevoli di essere la spina dorsale dell’America della sua agricoltura e della sua industria in crisi. Sono in prevalenza cittadini bianchi di origine anglo tedesca, protestanti, forse colpiti nell’orgoglio dall’aver dovuto sopportare un Presidente nero; sono cittadini che non sono disposti a dare voce alle minoranze perché loro è l’America. Trump ha ben interpretato questo stato d’animo della gente del Sud e del Midwest e li ha convinti che egli è, come loro, un nemico delle élite che li governano. È una truffa, perché il Presidente appartiene da quando è nato alla élite, è nato in una famiglia ricca ed egli stesso è un magnate dell’edilizia a New York; ha fatto leggi a favore dei ricchi e degli industriali, ma usa il loro linguaggio, si comporta rozzamente come loro, è li ha convinti di essere uno di loro.
La guerra civile americana quasi 150 anni fa, fu combattuta perché lo Stato era composto da due società differenti, una coloniale, basata sull’agricoltura prodotta dagli schiavi, l’altra che si avviava verso l’industrializzazione dove ogni lavoratore doveva essere anche un consumatore. Due diverse economie, due diverse società, due mondi diversi. Oggi gli Stati Uniti sono di nuovo con due società, una aperta, multietnica e libertaria; l’altra conservatrice e chiusa. Ciò non dovrebbe costituire un problema, in tutte le nazioni occidentali convivono questi due diversi sentimenti nella popolazione. La peculiarità americana è che questi due diversi sentimenti della popolazione costituiscono due diverse società perché abitano ciascuna in maniera omogenea una parte del Paese, così come era ai tempi della guerra di secessione.
La domanda finale che conviene porsi è quindi: continuando a condurre il suo popolo come ha fatto ieri, Donald Trump porterà ad una spaccatura della Nazione Americana? Oppure spaccherà il partito repubblicano?
Martedì scorso si sono svolti i ballottaggi per i due Senatori della Georgia, normalmente non si svolgono questi ballottaggi, in Georgia. I candidati repubblicani vincono al primo turno, superando il 50% dei consensi. Quest’anno non è andata come sempre, e già questo è stato il primo campanello d’allarme, coerente con il fatto che la Georgia sia stata assegnata a Biden. Però entrambi i senatori eletti martedì sono democratici: uno nero e uno ebreo, due rappresentanti delle minoranze in uno Stato simbolo della confederazione secessionista del Sud. Torniamo allora alla prima domanda quindi: i 74 milioni di voti di Trump sono tutti suoi, oppure una parte sono del partito repubblicano, cioè si riconoscono nelle élite di Washington? Se Trump resterà in politica, e quasi nessuno ha il dubbio che ciò avverrà, se non spaccherà l’America spaccherà il Grand Old Party.
Già ieri abbiamo visto come la leadership repubblicana si sia allontanata da Trump, a cominciare dal suo vice Pence, e dal leader al Senato McConnell. Già al suo apparire sulla scena politica il GOP aveva cercato di contenere Trump, ma alle elezioni del 2016 la sua vittoria nelle primarie lo aveva portato diritto alla Casa Bianca. I repubblicani sono conservatori per questo severi custodi della costituzione democratica e ieri lo hanno dimostrato.
Il commiato dalla Presidenza di Trump non si può dire che sia stato glorioso, anzi piuttosto triste. Con il tentato colpo di mano di ieri il Presidente ha sparato l’ultimo colpo, dovrebbe aver capito che (finalmente!) il partito repubblicano non è più con lui. Forse farà un altro partito, forse rientrerà al Congresso, ma non credo che potrà, come dichiara, tornare alla Casa Bianca nel 2024. Per il partito repubblicano ora non è più un compagno di strada, ma un concorrente, eppure pericoloso, per come si comporta, e per il consenso che che può raccogliere nel campo dei conservatori. La divisione di quel campo, è una manna per Biden e Harris.

Anselmo Calò