Il senso della Memoria

Mi sento di intervenire, come armeno e come co-fondatore di Gariwo, sul tema della Memoria, per ribadire il valore della comunanza di storia e memoria per prevenire i genocidi. Il ruolo cruciale della memoria si è costituito soprattutto in riferimento al Novecento, il secolo dei genocidi, fino a temere che la memoria sopravanzi la storia, ma soprattutto che, dilatandosi ai crimini contro l’umanità, dal passato al presente, banalizzi o indebolisca la centralità della Shoah. Ne è nato un dibattito a volte aspro e divisivo. Non è questa la mia posizione. Condivido la Carta della Memoria proposta da Gabriele Nissim, frutto di un confronto e di un dialogo vasto, di anni, perché non solo non abdica al ruolo di “comprensione della storia” al quale ogni memoria è deputata, ma perché approda a un concetto, anima di Gariwo, di memoria come prevenzione, memoria interrogativa, attiva, strumento pedagogico che attraverso le storie dei giusti crea le condizioni di assunzione di responsabilità nel presente: la via per dare concretezza al “non deve accadere mai più”.
“La storia”, come scrive Braudel, e io aggiungo, la memoria, ”non è soltanto misura dell’uomo, ma di tutti gli uomini”, è misura dell’umanità.
La domanda: quale uso facciamo della memoria del male estremo?
Per quanto riguarda il popolo armeno siamo entrati ormai nella realtà del “dopo l’ultimo testimone”, ed è quindi ancora più importante vedere l’uso che ciascuno può fare della storia e della memoria: la storia del male estremo riguarda tutti, così come la storia della Shoah, paradigma del male estremo, riguarda tutti; leggere nei genocidi elementi assolutamente specifici, differenze e somiglianze, non è operazione riduttiva: da una parte è immersione nei processi storici che richiede rigore di analisi, e dall’altra consapevolezza del significato che appartiene al racconto dei testimoni. Oltre a ciò, storia e memoria ci portano sulla strada impegnativa di poter distinguere il vero dal falso, di combattere il negazionismo in ogni sua forma, di vedere con lucidità i mali del presente per tentare di prevenirli.
Come armeno porto dentro di me emozioni soggettive legate alle testimonianze di chi ha vissuto un’esperienza “senza precedenti”, perché ogni genocidio è senza precedenti nella sua specificità e nel suo essere prodotto di un determinato contesto storico. Ma sono i dati oggettivi, risultati dell’indagine storica che cresce e progredisce incessantemente, che mi spingono a rifiutare, ad esempio, il negazionismo di Stato che ancora pesa sulla memoria del mio popolo rendendolo doppiamente vittima. Di qui nasce la consapevolezza del valore della ricerca storica che mette a fuoco le realtà dei genocidi, il contesto in cui si preparano, la facilità con cui si trovano i volonterosi carnefici pronti a negare agli esseri umani la loro umanità, considerata pericolosa per altri esseri umani, vestendo di bene il male estremo. Queste operazioni si sono ripetute e si ripetono nella storia, e con questa consapevolezza mi sembra di riuscire a salvaguardare nel contempo la memoria specifica del genocidio del mio popolo e di altri popoli, ma soprattutto a vedere con chiarezza che il concetto di umanità è universale e che sterminare un popolo vuol dire colpire l’intera umanità.
È la scoperta delle azioni dei giusti, salvatori, disobbedienti, testimoni di verità, difensori dei diritti umani che mi ha fatto uscire dal recinto chiuso del trauma, personale e collettivo subìto dal mio popolo che mi impediva di guardare oltre. Non basta, mi ha reso cosciente di un grave rischio: i turchi di oggi, non colpevoli, eredi dei carnefici, non riconoscono il fatto che più di un milione di armeni sono stati sterminati nel 1915. Questo, mettendo in evidenza il perdurante oltranzismo ideologico del nazionalismo, confinava noi armeni nel risentimento e nel sentirci unici, in quanto vittime del crimine di nuovo genere, prototipo di ciò che è seguito; noi della diaspora ci sentivamo uniti proprio utilizzando “i martiri”, e la richiesta di giustizia della memoria valeva solo per noi; inoltre, una identità di secoli, non fondata su un territorio, ma su una appartenenza culturale, religiosa, artistica, rimaneva in ombra e non ci si apriva al futuro.
Scopro un giorno nel diario di mio padre che un turco, appartenente al popolo nemico, ha salvato la famiglia del nonno. Qui crolla il recinto chiuso del trauma ereditato, e crolla l’identificazione tra popoli e governi. Comincia un’altra storia: si può fare un uso positivo della memoria anche se emerge da un contesto tragico. Qui nascono gli incontri e i confronti con altre memorie, e con un amico ebreo, che vede lucidamente i rischi della monopolizzazione del male estremo, “senza precedenti”, paradigmatico, inferto al suo popolo. Fondiamo Gariwo, la foresta dei Giusti.
Perché Gariwo propone oggi una Carta della memoria da sottoscrivere? Perché risponde all’anima di Gariwo, a quello che è nato da un incontro tra la memoria della Shoah e la memoria del genocidio armeno, tra un ebreo, Gabriele Nissim, e un armeno, il sottoscritto: un raccordo tra le memorie che ci ha fatto approdare all’universalizzazione del concetto di “giusto”, a riconoscere il valore universale della memoria e il valore della prevenzione del male che si fonda sull’orizzonte etico dei temi della responsabilità, della libertà, dell’autonomia di pensiero. Ad essi fa riferimento l’agire morale dei giusti dell’Umanità e Gariwo crea i Giardini dei Giusti del Mondo, ne fa memoria, li onora per far giungere alle generazioni il messaggio che per prevenire il male è necessario anticipare il bene. Nel mio percorso personale e nel percorso di Gariwo è risultato da subito evidente che il “non deve accadere mai più”, richiede di trovare nella memoria una forza capace, oltre che di tenere fermo il fatto che ogni evento è di per sé unico, di far nascere interrogativi, di farci leggere quello che accade intorno a noi operando un collegamento tra passato e presente, di mobilitare le coscienze per creare le condizioni di diventare testimoni attivi. La memoria del genocidio armeno ha preso vigore da questo sodalizio e dal lontano 2000, dal Convegno all’Università di Padova “Si può sempre dire un sì o un no: i giusti contro i genocidi degli armeni e degli ebrei”, si è avviato un cammino in cui le memorie non solo non sono entrate in competizione, ma si sono raccordate e rafforzate nell’impegno di onorare le vittime ricostruendo le storie dei salvatori. Non si sono alzate voci di rivendicazione dell’esclusività dei traumi e se si alzano la risposta appare chiara, perché nasce dai risultati ottenuti: Il confronto ha accresciuto la conoscenza della realtà del male estremo di cui tanti popoli sono stati e sono vittime, e ha messo in luce una tale ricchezza di intersezioni storiche tra le diverse identità da renderci coscienti dell’impegno che tale comunanza di memorie richiede se vogliamo dare il nostro contributo alla prevenzione del male.
Le testimonianze del genocidio armeno, “crimine di natura diversa”, sono servite a Raphael Lemkin, ebreo polacco, a dare il via ai suoi studi giuridici del “crimine senza nome”, apparso nella storia. Poi ne è seguito un altro “senza precedenti”, un’eccedenza del male, non solo per numero ma per qualità del progetto intenzionale: i nazisti allungavano i loro tentacoli sugli ebrei in tutto il mondo: universalizzazione dello sterminio; e nel 1944 Lemkin scrive che questi crimini senza nome si chiamano genocidi: si sterminano gruppi nazionali, etnici, razziali, religiosi, non per quello che hanno fatto, ma per quello che sono. Se l’elaborazione della memoria della Shoah è stata ed è, come sappiamo, paradigmatica, senza precedenti, e gli strumenti e il linguaggio messi a punto sono serviti e servono a leggere il genocidio del mio popolo e gli altri genocidi, questo significa non una banalizzazione della Shoah ma un potenziamento del sapere e del sentire. Il lavoro storico di comparazione è sempre produttivo. Oggi in Francia, ad esempio, il genocidio armeno serve a studi comparativi con il genocidio del Ruanda. Si tratta di potenzialità che vengono messe a servizio della verità e della giustizia. Così come le azioni dei giusti.
Quando ho portato in Armenia le ceneri di Armin T. Wegner, un giusto per gli armeni e per gli ebrei o la terra dell’Ambasciatore ebreo di stanza a Costantinopoli nel 1915, Henry Morgenthau, raccolta al cimitero ebraico di Mount Pleasant a New York, alla presenza del Rabbino capo e dei nipoti Henry e Robert; quando ho scoperto che nel ghetto di Varsavia i resistenti leggevano “I Quaranta Giorni del Mussa Dagh “ dell’ebreo Franz Werfel; quando abbiamo inaugurato a Milano al Memoriale della Shoah, la mostra del genocidio armeno con le fotografie di Wegner; quando ho presentato alla libreria del ghetto di Venezia il libro da me curato sulla vita della famiglia Aaronshon, voci ebraiche testimoni del genocidio degli armeni; o quando, infine (ma gli esempi sono assai più numerosi), ho assistito alla presentazione del volume di più di seicento pagine della Revue d’histoire de la Shoah, (n°177-178 ), “Connaisance et reconnaissance du génocide des Arméniens”, edito dal Centre de Documentation Juive Contemporaine, mi è apparsa la possibilità di un uso diverso della memoria. Allo Yad Washem degli armeni che hanno salvato degli ebrei sono Giusti tra le Nazioni; si tocca con mano il valore della comunanza delle memorie, non solo nella storia del male estremo, ma anche nelle testimonianze della sopravvivenza e della rigenerazione culturale dei popoli la cui identità appartiene alla storia del mondo. Su questa strada si salva il valore universale dell’Umanità: la comunanza del male e la comunanza del bene.

Pietro Kuciukian, co-fondatore di Gariwo la foresta dei Giusti dell’Umanità

(8 gennaio 2021)