Un nuovo Medio Oriente
Il 29 dicembre scorso Ugo Volli, la cui competenza nell’interpretare il Medio Oriente è fuori discussione, ha pubblicato una interessante analisi sui tre stadi della strategia araba nel suo confronto prima con il movimento sionista e poi con lo Stato di Israele.
Secondo l’autore, gli arabi avrebbero inizialmente condotto uno scontro militare con il proposito dell’annientamento degli ebrei, fino alla Guerra del Kippur, che sancì la definitiva supremazia militare di Israele.
Intanto era nato il palestinismo (neologismo dell’autore), ovvero la rivendicazione della liberazione nazionale del popolo palestinese. Un popolo, sostiene Volli, che non esiste, tanto da dover far riferimento ad un lemma geografico occidentale piuttosto che uno originario autentico. Il palestinismo ha due diverse fasi: la prima terroristica, che in verità comincia già nella seconda metà degli anni ’50, ma si internazionalizza col settembre nero del 1970; la seconda più politica, quando convince il mondo che solo la pace tra Israele e palestinesi può sistemare il Medio Oriente.
Un processo di pace infinito, fatto di falsa disponibilità e continui rifiuti. La colpa della sinistra israeliana sarebbe quella di cadere nel tranello e di accettare questo processo di pace senza prospettive concrete dal momento che per i palestinesi qualsiasi offerta sarà insoddisfacente.
Non si può negare che l’analisi sia corretta, tuttavia non credo sia corretto attribuire tutte le colpe ad una parte sola.
La costruzione degli insediamenti nei territori tuttora occupati da Israele, e la stessa occupazione, hanno dato alla controparte un’arma propagandistica molto efficace, così come alcune singole, ma non dimenticate, azioni, anche violente, di rivendicazione della sovranità ebraica in Cisgiordania.
Volli attribuisce a Trump il merito di aver superato il dogma dei legittimi diritti dei palestinesi (peccato originale di cui è portatore Biden, secondo l’autore). In realtà ancora l’ultimo progetto di pace del Presidente Trump prevede una soluzione statuale al problema dei profughi, ma bisogna riconoscere che è una dichiarazione solo retorica, senza convinzione, solo per edulcorare la soluzione proposta.
Il Medio Oriente di oggi è tutto diverso da quello di 10 o 15 anni fa; la regione è esplosa a partire dalle cosiddette primavere del 2010. La rivoluzione dei Fratelli Mussulmani in Egitto, poi rientrata con il colpo di Stato del generale Al Sisi; la caduta di Gheddafi con il fallimento dello stato libico; la rivolta contro Assad in Siria e la conseguente nascita dello Stato Islamico nel deserto tra Iraq e Siria; infine la guerra civile nello Yemen, sono chiare prove che il conflitto è tutto interno al mondo islamico, e non soltanto tra sciiti e sunniti.
Trump, secondo Volli, avrebbe portato alla scoperta che il re è nudo, ovvero che la questione palestinese non esiste, riuscendo a convincere di ciò persino gli arabi che contano, cioè le petromonarchie del Golfo.
Personalmente sono portato a credere che in questi ultimi anni, suppongo dall’inizio della guerra in Siria in poi, si sia sviluppata nei Paesi del Golfo una nuova consapevolezza, che lo scontro per il califfato si è fatto più duro, con due attori piuttosto potenti: gli iraniani e i turchi.
Di fronte a queste due potenze molto attive nello scacchiere mediorientale , la forza militare israeliana andava cooptata nel confronto. Del resto le imprese criminali dei terroristi fondamentalisti nel mondo occidentale hanno progressivamente allontanato le opinioni pubbliche dal sostegno alla causa palestinese.
Tra continuare a sostenere economicamente i voraci e screditati leader di Gaza e Ramallah e avere alleato Israele contro l’Iran, in uno scontro che può divenire perfino atomico, la scelta non può che essere pragmatica.
Gli Stati arabi stanno compiendo quindi una scelta di realpolitik. Il merito di Trump è quello di aver riaperto il confronto tra gli stati che si affacciano sul Golfo Persico, tramite la denuncia del trattato sul meta-controllo del programma atomico di Teheran voluto da Obama. Un confronto che il trattato cercava di sopire e che Trump ha rinfocolato.
L’Arabia Saudita era dello stesso avviso del Presidente americano, non ha mai creduto nell’effetto positivo del ritardare il piano atomico iraniano, immaginato da Obama.
Quel che è ormai chiaro è che una parte dei Paesi musulmani – in particolare proprio gli arabi – considerano Israele un attore legittimo a tutti gli effetti nel Medio Oriente. A sostenere la causa palestinese sono rimasti i musulmani non arabi: turchi e iraniani.
Semmai dovesse riaprire i contatti con l’Iran, Joe Biden non potrà non tener conto di questa nuova situazione. Mi sembra perciò improbabile che la politica americana in Medio Oriente sia destinata a cambiare con la nuova amministrazione di Washington.
Anselmo Calò
(13 gennaio 2021)