Spuntino – Il piatto in cui si mangia
Mosè accetta con titubanza l’incarico di liberare il popolo ebraico dalla schiavitù d’Egitto. Alla fine della parashà precedente non nasconde, davanti a D-o, la sua insoddisfazione rispetto alla durezza del faraone che si dimostra molto determinato a non fare concessioni (Es. 5:23): “da quando mi sono recato dal faraone per parlare in Tuo nome, egli ha fatto del male a questo popolo, e Tu non hai salvato il Tuo popolo.” La risposta di D-o a Mosè (Es. 6:1) “*ora* vedrai cosa farò al faraone…”, sottintende che *poi* non vedrà l’ingresso in Terra d’Israele (secondo Rashì), come di fatto si verificherà. La parashà di questa settimana (VaErà) comincia (in Es. 6:2) immediatamente dopo questo dialogo. D-o si rivolge come Elokìm a Mosè, quindi sul piano del giudizio (“din”). Eppure nello stesso versetto compare anche il Tetragramma, associato alla misericordia divina. Le due prerogative di D-o, il giudizio e la misericordia, sono inscindibili e convivono nell’Uno, HaShem Elokenu, com’è chiaramente espresso nello Shemà’. In un certo senso anche Mosè riesce a mantenere un giusto equilibrio tra lucida determinazione del giudizio e umana sensibilità quando l’ostinazione del faraone, guidata dall’Alto, viene punita con le piaghe. È proprio in questa circostanza che Mosè ci insegna la virtù della riconoscenza (“hakarat ha-tov”), benefica per chi la esprime indipendentemente da chi la riceve. In occasione di tre delle dieci piaghe (sangue, rane e pidocchi) Mosè non interviene direttamente bensì incarica il fratello Aronne di colpire le acque del Nilo (grazie alle quali Mosè si salvò) e la polvere della terra (grazie alla quale Mosè potè occultare il corpo dell’aguzzino egizio). In quanto elementi inerti, le acque del Nilo e la polvere della terra non possono prendere decisioni. Certamente non possono avere intenzioni, né tanto meno soffrirebbero di una percossa! Con tutto questo l’obbligo di esprimere riconoscenza rimane valido. Nella Ghemarà c’è scritto (TB Babà Kama 92b) che bisogna astenersi dal gettare delle sterpaglie nel pozzo da cui si è bevuto o, come diremmo oggi, non si sputa nel piatto in cui si mangia.
Raphael Barki