I profeti e la parola

Nel discutere con il Signore, che lo ha incaricato di presentarsi al faraone per liberare gli ebrei dalla schiavitù, Moshè controbatte dicendo: “io sono pesante di bocca e di lingua” (Shemòt 4 v.10), ossia balbuziente o con difficoltà di linguaggio. Nella nostra parashà – Vaerà – Moshè nuovamente torna ad esprimere lo stesso concetto, ma con terminologia diversa: si definisce “chiuso di labbra” (Shemòt 6 v. 12).
Alcuni commentatori si chiedono: perché D-o sceglie Moshè per parlare al popolo e al faraone e non Aharon che è invece un abile oratore? Di lui è infatti scritto che “è solito parlare” (Shemòt 4 v.14).
A questo lecito quesito, si risponde che: se avesse parlato Aharon – che tutti conoscevano come oratore pubblico – nessuno avrebbe creduto che quanto veniva detto fosse volontà divina, ma “farina del suo sacco”. Riguardo a Moshè invece, era palese che tutto ciò che diceva al popolo e al faraone era di provenienza divina, proprio a causa delle sue difficoltà di espressione.
A volte nella natura dell’uomo, si tende a notare l’aspetto esteriore degli altri, sottovalutando ciò che invece è intrinseco in lui. Moshè, Geremia, Amos ed altri Profeti di Israele, hanno difetti o imperfezioni fisiche, ma da loro è uscita la parola di D-o.
Il termine “navì – profeta” deriva dal verbo “lehavì – riportare”; il vero profeta è colui che, riportando la parola di D-o, conferma e ribadisce, senza nulla togliere o aggiungere all’insegnamento della Torà e delle mizvot.

Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna