Il colore della Casa Bianca
Siamo oramai vicini al cambio di inquilino alla Casa Bianca. Il quarantaseiesimo presidente, Joseph Robinette Biden Jr., il prossimo 20 gennaio giurerà e da quel momento entrerà nel pieno dei suoi poteri. Si sostituirà all’uscente Donald Trump, che fino all’ultimo ha cercato di contrastare, anche adottando condotte al limite della fraudolenza, la sua legittima successione. Il voto ebraico, nel novembre dello scorso anno, aveva già premiato Biden con un 77% di preferenze (di contro al 71% che era invece andato a Hillary Clinton e un 69% per il secondo mandato a favore di Barack Obama). Nel complesso, le preferenze da parte delle minoranze si sono espresse a favore del candidato democratico, con l’eccezione di una parte delle componenti latino-americane e ispaniche. Bisognerà vedere cosa ciò comporterà, alla prova dei fatti, nella politica di Washington verso Israele. La previsione di molti osservatori è che nulla di particolarmente significativo interverrà rispetto all’insieme degli indirizzi già assunti in questi ultimi anni. È probabile che il presidente entrante rettifichi alcune condotte pubbliche considerate altrimenti troppo sfavorevoli ai palestinesi ma l’immaginifico «processo di pace», che dovrebbe portare ad una definitiva ricomposizione del conflitto tra le due comunità nazionali, rimarrà al palo. Posto che non esistono le premesse di merito per procedere verso risultati significativi. Non allo stato attuale delle cose. L’Amministrazione Trump, d’altro canto, si era caratterizzata per un marcato unilateralismo. Quest’ultimo, plausibilmente, verrà rivisto e quanto meno attenuato. Ma Joe Biden ha in agenda molti dossier più urgenti di quelli mediorientali, fermo restando che gli Stati Uniti attendono di capire quale sia il destino di Benjamin Netanyahu, ancora vivacissimo sulla scena politica ma considerato, oramai da non pochi, come destinato ad essere sempre più logorato e, quindi, fragile. Un primo pronunciamento, quindi, si avrà al riguardo dopo le ennesime elezioni politiche israeliane, che come è risaputo si terranno a marzo. Anche qui la previsione è comunque incerta, registrando la persistenza della frammentazione del quadro politico e la mancanza di soluzioni facilmente praticabili. Sta di fatto che, al netto di queste considerazioni, il nuovo presidente americano lavorerà da subito su tre tavoli concertati: la gestione della pandemia; la risposta da dare all’economia federale; il rapporto con la Cina. All’interno di questa cornice, molte altre cose ne deriveranno e conseguiranno. Le tensioni registratesi in queste ultime settimane, con la ripetuta indisponibilità di Trump nel riconoscere gli esiti del voto, hanno comunque esacerbato gli animi e consegnano alla nuova Amministrazione un paese attraversato da molte fenditure. In realtà, molti problemi preesistevano a quanto il tycoon televisivo ha poi radicalizzato a suo favore. Già all’atto della prima elezione di Barack Obama nel 2009, infatti, si erano rivelate alcune faglie critiche. Peraltro esse stesse erano in sé per nulla inedite, poiché a loro volta innervate nella storia della Federazione. La prima presidenza di colore si era accompagnata, soprattutto in campo ebraico, a un sentimento irrisolto, dove alla speranza nel cambiamento si coniugavano i timori rispetto alle direzioni che esso avrebbe potrebbe poi assumere. Il pensiero era rivolto, allora come oggi, soprattutto nei confronti di Israele. La «special partnership» che aveva caratterizzato i rapporti con l’uscente Amministrazione Bush presentava per molti aspetti i caratteri dell’irripetibilità. Non di meno, si trattava di capire su quali basi sarebbero stati contrattati e consolidati nuovi e durevoli legami. È vero che Obama si era preoccupato, fin dal momento della sua nomination, di rassicurare gli autorevoli esponenti dell’Aipac, l’American Israel Public Affairs Commettee, scegliendo come suo vice proprio Joe Biden, collocato su posizioni notoriamente vicine a Gerusalemme, ma i dubbi sui tempi a venire non avevano poi ricevuto nessun chiarimento definitivo. Tanto più dinanzi alla pubblicazione di documenti come «A Last Chance for a Two-State Israel-Palestine Agreement», sottoscritto nell’aprile del 2009 da una decina di autorevoli esponenti della politica americana, in cui si chiedeva ad Obama un cambio di rotta nel merito del conflitto tra israeliani e palestinesi. Le successive politiche presidenziali rispetto all’intero Medio Oriente, sostanzialmente orientate ad un disimpegno americano, avevano raccolto scarsi successi ed un ancora minore numero di assensi. Soprattutto in una parte della società ebraica. All’interno di queste dinamiche si era quindi di nuovo esacerbata una vecchia tensione, quella che dalla fine degli anni Sessanta faceva sì che i legami e gli scambi tra la componente ebraica e la popolazione di colore degli Stati Uniti fossero stati segnati soprattutto da molteplici tensioni. La Presidenza Obama (2009-2017) – quindi – demandava già del suo ad una serie di riflessioni nel merito del rapporto tra due minoranze “dense”, ossia due gruppi fortemente radicati nella storia americana, che hanno spesso condiviso battaglie in comune ma che negli ultimi tempi sembravano essersi allontanati l’uno dall’altro. Qualche cenno storico al riguardo può quindi aiutarci a capire il presente, ossia lo scenario che va configurandosi con il mandato di Biden. Nel XIX secolo, con l’eccezione di alcuni mercanti di Newport, gli ebrei erano estranei alla tratta degli schiavi, un flagello che invece condizionava le prospettive di insediamento della comunità di colore. Il rabbino David Einhorn di Baltimora, tra gli altri, si era ripetutamente pronunciato contro la schiavitù, assurgendo ad un ruolo di leadership nel movimento abolizionista e in ciò scontrandosi con l’atteggiamento di altri religiosi, soprattutto degli Stati del Sud, propensi invece al suo mantenimento. Poco meno di un secolo dopo gli ebrei si trovarono da subito in prima fila nel movimento per le libertà civili. Se la militanza di molti di essi si fondava sulla necessità di vedere riconosciuta appieno la propria cittadinanza, per molti altri era parte di un più generale atteggiamento politico volto alla difesa e all’ampliamento delle istanze legate allo sviluppo del liberalismo e della democrazia, indipendentemente dalla comunità di appartenenza. Per gli ebrei “progressisti” si era prima di tutto parte di un’unica società, quella americana, e dalla sua evoluzione avrebbero dovuto derivare benefici per tutti, indipendentemente dal colore della pelle. Così negli anni delle Amministrazioni Roosevelt e poi Truman. Peraltro, ed è fenomeno spesso rimosso dalla coscienza comune, l’insediamento ebraico, consolidatosi negli Stati Uniti a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, con l’arrivo in più ondate di ebrei aschenaziti migranti dall’Europa dell’Est, aveva dovuto scontare a lungo l’atteggiamento di diffidenza razzista della componente protestante, che in tale modo si garantiva il controllo delle più importanti leve del potere politico, economico e culturale. L’antisemitismo, infatti, non fu per nulla estraneo alle culture politiche nazionali, diventando semmai un asse fondamentale di quella parte di destra radicale che a tutt’oggi domina lo scenario dei gruppi “patriottici” che influenzano alcune componenti repubblicane e, più in generale, l’arcipelago sovranista. Dopo il pronunciamento antisegregazionista della Corte Suprema del 1954, che apriva tutte le scuole statunitensi all’accesso dei neri, grande fu il sostegno e la partecipazione di molti ebrei alle iniziative che intendevano tradurre nei fatti la discussa deliberazione, in quanto fermamente ostacolata dai segregazionisti di allora. In quegli anni non mancò una nutrita partecipazione ebraica alla National Association for the Advancement of Colored People. Esempi in tal senso furono quelli di Joel Spingarn e di suo fratello Arthur, entrambi presidenti dalla NAACP, così come di Louis Marshall e del rabbino Stephen Wise che dell’associazione furono esponenti di primo piano. Dalla fine degli anni Cinquanta gli obiettivi sostenuti dalla comunità nera volsero sempre di più verso la piena integrazione economica, iniziando a maturare la consapevolezza che il proprio numero poteva costituire una forza di pressione politica non indifferente. Il nuovo movimento per i diritti civili che si sviluppò agli albori degli anni Sessanta, a partire dalle scuole e dai college, vide una giovane generazione di leader – dove si affiancavano e militavano studenti ebrei e studenti di colore – condividere richieste comuni. Negli Stati del Sud, dove maggiori erano le resistenze alle trasformazioni in corso da parte della popolazione bianca, gli ebrei furono presenti nelle file di organizzazioni come lo Student Nonviolent Coordinating Committee, il Congress of Racial Equality e la Martin Luther King’s Southern Christian Leadership Conference. Il momento più alto fu la «marcia per il lavoro e la libertà» del 18 agosto 1963 a Washington, dove Martin Luther King pronunciò il famoso discorso «I have a dream». L’azione privilegiata, in tutte le circostanze, era sempre e comunque quella non violenta. L’assassinio di John Kennedy, ma anche e soprattutto le difficoltà che l’Amministrazione Johnson incontrò nell’ottenere fondi dal Congresso per finanziare il vasto programma di lotta alle povertà, ancora endemiche nei quartieri neri delle grandi città, furono tuttavia alle origini di un processo di riflusso nell’evoluzione del movimento dei diritti civili. In quegli anni la montante retorica della «black consciousness», che predicava uno sviluppo separato dalla comunità bianca, prese progressivamente il sopravvento sulle istanze integrazioniste. I leader dei movimenti separazionisti, a partire dalla «Nation of Islam», presieduta da Elijah Muhammad e sostenuta dal carismatico Malcom X, o le «Black Panthers», movimento di azione violenta, abituato a ricorrere all’uso delle armi, rifacendosi ad una concezione suprematista (che poneva i neri al di sopra dei bianchi non meno che legandoli ad una versione militante della religione musulmana) segnarono il declino del sodalizio con gli ebrei. Questi ultimi subirono gli effetti di un nuovo antisemitismo, quello espresso da alcuni leader radicali di colore, che identificavano nella presenza ebraica negli Stati Uniti il segno di un dominio al contempo di classe (attribuendo ad essa un ruolo “borghese”) e razziale (poiché intendevano l’ebraismo come appartenenza ad una “etnia”). Le violenze nei quartieri-ghetto, dove i negozi degli ebrei, proprietari di «groceries», alimentari e drogherie, e come tali messi all’indice in quanto «usurai», venivano frequentemente presi d’assalto, furono il segno di una divisione che si era oramai consumata con la fine degli anni Sessanta. Da ciò derivò, tra le altre cose, anche la mancata confluenza in un’unica organizzazione del movimento di rivendicazione dei diritti dei neri con il movimento pacifista, impegnato contro la guerra in Vietnam, nel quale invece i giovani ebrei avevano un ruolo di indiscussa leadership. Così come l’incapacità di trasformare le proteste giovanili nei campus universitari in energia politica capace di influenzare le scelte dei democratici. Agli inizi degli anni Settanta una vera e propria spaccatura si andò quindi consumando. Il ricorso al linguaggio antisemitico divenne comune tra gli esponenti più radicali delle comunità nere, anche se i leader moderati continuarono a rifiutarlo sempre e comunque. Emblematico, in tal senso, l’atteggiamento di Louis Farrakhan, importante religioso musulmano, dal 1981 leader unico della Nation of Islam, che non ha mai nascosto la sua avversione nei confronti del giudaismo inteso come una delle radici del “potere bianco”. La diffidenza tra le due comunità culminò negli anni Ottanta con la manifesta indisponibilità per parte ebraica di sostenere l’eventualità di una candidatura del reverendo Jesse Jackson alla Casa Bianca nelle file del Partito democratico. Quest’ultimo, peraltro, raccogliendo a tutt’oggi almeno due terzi del voto ebraico nazionale, non può non essere sensibile nei confronti delle istanze che esso esprime. Le ripetute dichiarazioni contro Israele di esponenti neri di area democratica hanno così raffreddato ancora di più le relazioni con le comunità ebraiche. Tuttavia, dopo il difficile tornante degli anni trascorsi, e la stagione dei «neoconservatives», spesso intellettuali e politici repubblicani di origini evangeliche molto vicini a Gerusalemme, gli antichi legami sembrano avere ripreso una qualche solidità. Conta non di meno il fatto che il difficile incontro e il duro ma sincero confronto tra neri ed ebrei in America si traduca, molto spesso, in un elemento per ridefinire gli equilibri di potere interni alle singole comunità. In campo ebraico, ad esempio, è aperto a tutt’oggi un conflitto tra le componenti liberal e quelle più conservatrici per il controllo delle grandi associazioni, tradizionali trampolini di lancio nella politica nazionale oltre che strumenti di pressione nella società americana. Non va poi sottovalutato il fatto che negli Usa risiedano quasi mezzo milione di cittadini israeliani, abituati a muoversi tra i due paesi. Il giudizio su Biden, quindi, che pure ha raccolto molti voti di ebrei, dipenderà senz’altro da quello che farà in Medio Oriente ma anche dall’incisività della sua azione in campo economico. Gli effetti della pandemia si sono riflessi su una società che si sente più incerta. Chi saprà dare sicurezza e speranza per il futuro si lascerà alle spalle le tensioni del presente. Insomma, chi avrà di che tessere, tesserà. Ma dovrà lavorare su lacerazioni solo in parte recenti, scontando semmai
Claudio Vercelli
(17 gennaio 2021)