Torino 1938,
a scuola di Resistenza

“Ricordo che la domenica mattina, cartella in spalla, andavo a scuola. I passanti per strada mi dicevano: ‘Ma come? Vai di domenica?’. E io rispondevo orgogliosissima: ‘sì, perché vado alla scuola ebraica’”. Nella Torino delle leggi razziste, delle epurazioni di studenti e professori ebrei, il racconto di Elena Ottolenghi, classe 1929, è emblematico. Nei suoi ricordi dell’epoca, a emergere non è la ferita dell’espulsione dalle scuole pubbliche, ma l’orgoglio di aver frequentato per cinque anni quella costruita dalla Comunità ebraica torinese per i suoi giovani. “È stata un’esperienza molto formativa, mi ha dato coscienza della mia identità ebraica e basi culturali fantastiche. Tanto da poter entrare subito in terza superiore dopo la guerra e nonostante due anni di sospensione dagli studi”. Un giudizio condiviso da Nora Bohm Perugia, Roberto Segre, Benedetto Terracini, Emilio Jona e Alberto Finzi, protagonisti, insieme a Ottolenghi, della serata online organizzata dall’Associazione ex allievi e amici della Scuola ebraica di Torino (Asset) intitolata “Quegli storici Allievi”.
Cacciati dalla scuola pubblica in forza del regio decreto del 5 settembre 1938, gli studenti ebrei torinesi si raccolsero nella scuola ebraica, con la veloce e capace organizzazione, a fianco dell’organo direttivo della Comunità, di alcuni benefattori e maggiorenti comunitari che diedero vita, avvertita la gravità della situazione, ad una scuola creata ex novo. In realtà una scuola ebraica esisteva già, ma soltanto per le classi elementari. Ossia l’antico Talmud Torah istituito oltre un secolo prima.
“Il mondo della scuola è il primo a dover fare i conti con le legislazioni razziali. In soli due mesi, dal settembre al novembre 1938, nascono in tutta Italia decine di scuole ebraiche – ha spiegato in apertura Barbara Berruti, vicedirettrice dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza – Torino è un esempio di eccellenza, dove alla preesistente scuola dell’Infanzia e Primaria, si aggiungono un ginnasio, una scuola professionale ed un liceo classico”. Dal ’38 fino al maggio 1943 l’istituto rimane aperto, accogliendo sia gli studenti espulsi sia formando “un corpo docente di eccellenza: a farne parte, insegnanti fuoriusciti dai migliori istituti cittadini e dalle facoltà universitarie”, ha affermato il vicepresidente UCEI Giulio Disegni, presidente dell’Asset.
“La scuola nasceva come necessità pratica: continuare a istruire i giovani ebrei. – ha messo ancora in luce Berruti – ma anche per una ragione psicologica: far pesare il meno possibile l’esclusione sulle spalle delle giovani generazioni. E si aggiungeva una motivazione politica: la scuola come prima forma di resistenza alla persecuzione”.
Non è dunque un caso se Emilio Jona, classe 1927, parli apertamente di “scuola di resistenza”, ricordando come tra i banchi prese coscienza dei valori dell’antifascismo. “Ricordo come Sergio Segre, Geo Levi ed io, in piena guerra, due o tre volte abbiamo preso i gessetti dalle lavagne della scuola ebraica e siamo andati in alcuni circoli rionali fascisti a scrivere ‘Morte al fascio’”.
La scuola fu anche un rifugio, un luogo dove per quanto possibile veniva tutelata la serenità. Parola usata da Roberto Segre, classe 1929, in una lettera-testimonianza, letta dall’attore Vittorio Bestoso, che ha coordinato la serata. Bestoso ha inoltre letto alcuni passaggi del libro di Alberto Cavaglion La scuola ebraica a Torino (1938-1943).
Come ricorda Cavaglion, per attivare tempestivamente i corsi “si impegnarono in primo luogo due fratelli, due personaggi di grande prestigio intellettuale, abituati a vivere negli studi e per gli studi, ma che in quello scorcio di autunno 1938 seppero prendere in mano le redini di una comunità altrimenti destinata allo sbando”. E cioè Alessandro e Benvenuto Terracini. Nel momento in cui nasceva, la scuola si trovò di fronte un problema di impostazione. Se privilegiare cioè “un orientamento professionale ovvero se confermare la tendenza umanistica prevalente nella scuola italiana degli anni 20-30: prevalse la seconda ipotesi”. Un’ipotesi tenacemente difesa dal professor Giuseppe Morpurgo, docente di materie classiche e suocero di Primo Levi, preside della scuola dal 1941 dopo la tragica morte di Giacomo Tedesco sino alla chiusura nel maggio 1943.
Tanti i professori citati nel corso della serata dagli ex allievi: da Emanuele Artom, poi ucciso dai fascisti, a Ettore Del Vecchio, ricordato da Alberto Finzi, il più anziano dei testimoni (1922). “Docente universitario di grande valore. Era anche mio zio, ma non fece mai favoritismi, anzi forse proprio perché eravamo parenti con me fu sempre molto esigente”. O Salvatore Foa, citato invece da Nora Bohm Perugia. “Ricordo che nei tre anni di media ci fece studiare a memoria i Salmi, invece che Leopardi, che infatti non so. Le sue lezioni mi hanno dato tantissimo, anche dal punto di vista etico”.
Ha invece letto un significativo carteggio dell’epoca Benedetto Terracini, classe 1931: una lettera in cui il padre sottolineava l’importanza di “garantire agli alunni una cultura non inferiore a quella a cui erano abituati” nelle scuole pubbliche. Tutti dunque erano impegnati, nonostante le persecuzioni e i bombardamenti, a garantire ai propri figli una formazione di qualità. Un esempio di fiducia nel futuro, che rappresenta una lezione anche per il presente.