Giù le mani da Bartali
(e dalla Memoria)
La ventunesima tappa del Giro d’Italia del 1982 ripropose il percorso della celebre tappa del 1949 in cui trionfò Coppi, con il Colle della Maddalena, il Col de Vars, l’Izoard (Cima Coppi), il Monginevro e il Sestriere. Vinse Saronni in volata davanti a Hinault. In quegli anni ero appassionato di ciclismo. Chiedo scusa ai miei lettori, ma il mio intervento è guastato dall’ira, fatico a controllarmi. Bartali per me rimane un mito intoccabile. Ho controllato in rete: era il 5 giugno, il Giro fece tappa nella mia città. Lo conferma la dedica autografa sopra un manifesto con la famosa foto del passo Galibier dove si vede il passaggio della borraccia tra Bartali e Coppi. Il manifesto con dedica lo ebbi quel giorno dalle mani stesse di Bartali. Scattai la foto che vedete in questa pagina, non è granché lo ammetto, ci sono affezionato. Bartali da inviato seguiva il Giro, era piuttosto vecchio, non ricordo chi volle che incontrasse mio padre. Oggi dicono che non parlasse mai dell’aiuto recato agli ebrei durante l’occupazione tedesca perché, forse, non aveva aiutato nessuno: il suo mito lo avremmo inventato noi posteri. Non è così, posso recare testimonianza del contrario: mio padre rimase impressionato da quella conversazione, tanto è vero che incollò dietro la fotografia un ritaglio di giornale. Purtroppo non c’è data e non si dice da quale giornale sia stato sforbiciato: “Nel libro c’è un solo episodio che non avevo avuto modo di controllare, ma che mi era stato raccontato da una persona seria, ed è quello legato al nome di Gino Bartali. Durante la guerra il campione toscano, con il pretesto di allenamenti, ha percorso parecchie volte il tratto Firenze-Assisi per portare messaggi del cardinale Dalla Costa al Vescovo Nicolini. Successivamente l’attività di ‘corriere clandestino’ di Bartali mi è stata confermata dall’interessato e nel film lo vedremo impersonato dall’attore Alfredo Pea”.
Il film di cui si parla è naturalmente “Assisi underground”, che uscirà tre anni dopo e non avrà il successo planetario che avrà molti anni dopo il film di Benigni. I tempi non erano ancora maturi. Di quell’attività clandestina Bartali parlava, eccome, il problema è che nessuno dei detrattori odierni si ricorda del clima che si respirava nella prima metà degli anni Ottanta. Detto in modo brutale, che Bartali portasse o non portasse messaggi in bicicletta non importava a nessuno. Chi c’era ad ascoltarlo? Da allora sono passati quarant’anni, il vento ha fatto il suo giro e il povero Bartali senza che si possa difendere è finito nei guai. Prendersela con lui è diventato uno sport nazionale. Nel 2019 qualcuno ha messo in dubbio anche la foto del Galibier, sostenendo che è un fotomontaggio. Adesso Stefano Pivato, che in un precedente volume, quando la memoria della Shoah era in fase espansiva, aveva cavalcato il mito, ritratta e con il figlio Marco firma l’abiura (L’ossessione della memoria. Bartali e il salvataggio degli ebrei, una storia inventata / Castelvecchi). Una recensione di Stella sul Corriere ha suscitato un putiferio, nel quale non intendo entrare, perché la discussione mi crea solo tristezza. Guai a chi ci tocca i miti della giovinezza. Si è disposti a ridimensionarli, non si accetta che vengano abbattuti con deboli argomentazioni. Com’è caduta in basso la nostra storiografia, come ondeggia la riflessione sulla memoria a seconda del soffiare del vento! Oggi tutti in coro denunciano gli abusi della memoria, i Guardiani della memoria sono presi di mira, un segno dei nostri smemorati tempi; va di moda infrangere i tabù, è accaduto con Primo Levi, adesso tocca a Bartali. Qualche anno fa Ariel Toaff ha riscritto le sue Pasque di sangue, ma l’argomento del suo libro aveva ben altra sostanza delle pedalate di Gino, senza dire che ha fatto abiura da solo guardandosi bene dal chiedere soccorso a suo figlio. Qui il caso-Bartali/Pivato mi sembra avere obiettivi extra-storiografici, diciamo pure che di mira si prende Yad Vashem e il Tribunale dei Giusti, che ha le sue regole e avrà anche i suoi limiti, chi lo nega, ma che cosa c’entrano questi limiti con la seria ricerca storiografica? Si parva licet, ostinarsi a cercare in quei dossier di Yad Vashem (o altrove) le carte d’archivio che attestino l’aiuto effettivo recato da Bartali è come pretendere di trovare negli archivi vaticani il documento con il quale il papa avrebbe ordinato per iscritto l’apertura dei conventi romani agli ebrei nella Roma occupata. Non sono gesti che lascino una traccia scritta: nelle alte sfere del Vaticano come nelle tipografie dove chi fabbricava carte false non registrava sul suo taccuino chi le aveva ordinate e a chi le consegnava. Rimane la testimonianza orale dei salvati, sulla quale di solito si fonda, a torto o a ragione, il giudizio del Tribunale dei Giusti che non può essere lo stesso degli storici. Chi fa il mestiere di storico dovrebbe cogliere questa differenza e quando analizza i fatti del passato non dovrebbe usare lo stesso metro di giudizio, ma è chiedere troppo, bisogna rassegnarsi.
Rivendico il diritto di credere che quella borraccia sia davvero passata di mano e qualche cosa Bartali abbia fatto davvero pedalando fra Firenze e Assisi. Rivendico anche il diritto di leggere libri di storia su problemi veri e non finti. Pivato e come lui altri che lamentano l’ossessione della memoria dimostrano di non avere buona memoria. Dov’erano, che cosa facevano e che cosa scrivevano – di quel periodo e di quelle persecuzioni – fino al 1989-1990? Bartali seguiva il Giro d’Italia, felice e sorridente: se gli facevano incontrare chi aveva sofferto quelle stesse persecuzioni volentieri raccontava ciò che aveva fatto lui, senza vantarsi più di tanto. A lui interessava vedere se la pedalata di Hinault era comparabile alla sua. Del resto aquell’epoca nessuno gridava contro l’ossessione della memoria, contro le liturgie del 27 gennaio: i testimoni di quegli eventi erano soli, un cupo silenzio gravava intorno a loro. I nati post-2001, i giovani cresciuti con i martellanti 27 gennaio faticano a immaginare che cosa fosse l’Italia smemorata degli anni Settanta e Ottanta. Il caso-Bartali, i due libri su di lui firmati da uno stesso autore se mai dimostrano le capriole, non le ossessioni della memoria pubblica italiana.
Che si dirà, in Italia, dei Giusti e dei Malvagi nel 2030, nel 2040? Nessuno è in grado di prevedere, da noi il vento cambia spesso direzione. L’avvenire è incerto, ma sappiamo già che Pivato scriverà un terzo libro sul caso-Bartali, ne siamo certi, a quattro mani con il nipotino.
Alberto Cavaglion
(Nell’immagine in basso Enzo Cavaglion insieme a Gino Bartali)
(22 gennaio 2021)