Diciannovismo

Esiste una parola, nel vocabolario politico, oggi forse un po’ desueta ma un tempo frequentemente utilizzata. Si tratta del termine «diciannovismo», che dava il titolo ad un saggio di Pietro Nenni, uscito in Italia molti anni dopo i fenomeni che intendeva definire con un unico, inedito termine. Per l’appunto, il riferimento è al 1919, l’anno successivo alla fine della Grande guerra, quando iniziarono a manifestarsi appieno, in un clima di generale i irrequietudine, al limite del torbido, istinti violenti, eversivi, anti-istituzionali che trovavano proprio nell’esperienza bellica, e nelle tante insoddisfazione che ne erano derivate nell’immediato dopoguerra, il loro fondamento. Si trattava di un’epoca di transizione, che segnalava la fine, o comunque l’esaurimento, degli equilibri trascorsi, quelli che la guerra medesima aveva eroso, per proiettare quindi milioni di donne e uomini verso destini non chiari. La crescente inquietudine, insieme ad una sorda rabbia, erano i due suggelli di un’età di discontinuità: si sapeva che cosa già non si era più, si faticava anche solo ad intuire che cosa si sarebbe potuti divenire. Pietro Nenni, esponente prima del repubblicanesimo poi del socialismo italiani, raccoglieva e raccontava con un’unica parola quelle temperie per la quale gli atteggiamenti avversi all’ordine costituito, e ai rapporti di forza sussistenti, si andava traducendo prima di tutto in un disordine collettivo, sistematico, e poi in un’azione continuativa di delegittimazione dell’ordinamento liberale e statutario allora vigente in Italia. Il diciannovismo esprime il radicalismo massimalista che caratterizzò, all’epoca, una parte della sinistra ma anche e soprattutto la destra antiliberale che stava generando e quindi confluendo nel mussolinismo, per poi celebrarsi nel fascismo. La parola, pertanto, indica più un diffuso stato d’animo, una mentalità che andava formandosi e irrigidendosi che non piuttosto un qualche richiamo ad un’ipotesi di dottrina politica. Per tutto e tutti valgono semmai le parole di Benito Mussolini che della fondazione dei Fasci di combattimento (sempre nel 1919) disse: «noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente». Un piccolo manifesto dell’opportunismo, come seppe essere il fascismo per tutta la durata della sua esistenza. Cosa c’entra quel tempo, quell’epoca, con la nostra? Esistono forse corsi e ricorsi ai quali appellarsi? Non è invece un esercizio retorico quello di evocare, dinanzi ai periodi di crisi e trasformazione, le analogie con il passato, spesso più per pigrizia mentale che non per effettivo convincimento? Ad oggi, e non solo in Italia, le tensioni, la violenza del linguaggio e l’insulto verso gli avversari dominano parte della politica e senz’altro i social network. Una parte, non il tutto. La demagogia populista e il nazionalismo risorgente, il sovranismo e l’identitarismo, il fondamentalismo camuffato da discorso sui principi assoluti e inderogabili, insieme alla polemica antiparlamentare e contro ogni forma di intermediazione, l’irrazionalismo (nei confronti dei vaccini, per fare un esempio) e le ricorrenti pulsioni verso una non meglio definita «democrazia illiberale», potrebbero far somigliare da vicino i portatori di simili attributi a quei primi squadristi diciannovisti così descritti da Leo Longanesi: «facinorosi, violenti, spostati, ammazzasette […] vaghi fanatici che s’agitano senza sapere il perché, contro quel che non conoscono, più per un naturale bisogno di esaltarsi e d’inveire che d’altro: incapaci di vedere chiaro nelle idee proprie, condannano quelle altrui». Ma è meglio sfuggire alle facili suggestioni e rimanere sul terreno solido dell’analisi storico-politica. Nelle piazze e nelle strade del nostro Paese, quarantena permettendo, non ci sono uomini e donne alla ricerca di occasioni per menare le mani. D’altro canto, se lo squadrismo del passato si era manifestato essenzialmente attraverso il ricorso alla violenza fisica, oggi la sua componente più significativa è quella mediatica e virtuale, esercitata attraverso la coazione delle parole e la forza delle immagini. Le quali riescono ad intercettare e a raccogliere – ben meglio di molto altro – il risentimento e le paure che alimentano il rancore sociale, diffuso soprattutto in un ceto medio che teme il suo declassamento, ovvero la perdita non solo di alcune garanzie economie ma anche di uno status collettivo che è da tempo messo in discussione. Ancora una volta: il diciannovismo cosa c’entra con quest’ordine di riflessioni? È forse, per l’appunto, una storia destinata a ripetersi? Senz’altro non al medesimo modo. Mentre invece non è per nulla inedita la formula che lega derive antidemocratiche a crisi di ruolo di molti protagonisti della vita sociale, proprio a partire da quei segmenti della collettività che si sentono, a torto o a ragione, ricacciati indietro. E che lamentano – in questo caso con assoluta veridicità – l’ansia di essere divenuti irrilevanti rispetto non solo all’oggetto della decisione politica ma anche rispetto all’andamento degli stessi processi economici. Se cent’anni fa il diciannovismo, ed i suoi interpreti, avrebbero trovato nei movimenti socialisti, repubblicani, democratici e popolari i loro autentici antagonisti da neutralizzare, rivestendo quindi i panni di “rivoluzionari” per alimentare, invece, una risposta profondamente regressiva, culminata nei totalitarismi, oggi le cose non stanno più così. La crisi della rappresentanza politica, ossia della capacità come anche della volontà di identificare e soddisfare i bisogni di ampie parti della nostra società, corre di pari passo alla dismissione di ogni forma di partecipazione collettiva che non si riduca all’invettiva imbelle e all’insulto impotente. Il nocciolo dei fenomeni populistici si inquadra in questa condizione: una sorta di ruggito del coniglio, che viene poi catturato dagli impresari dell’antidemocrazia e dell’illiberalismo. Questi ultimi, rivestendo i panni di mediocri tribuni della rivolta popolare, in realtà cercano e misurano soprattutto i benefici personali e di piccolo gruppo che le manipolazioni delle angosce dei molti possono offrirgli. Anche per questo si scagliano contro qualsiasi sistema residuo di intermediazione, rivelando da subito che la loro vera radice è il parassitismo istituzionale. Tale quando, usando le medesime istituzioni delle democrazia, si adoperano per scardinarne l’essenza. Il diciannovismo riposa in questo e non in altro. Ovvero in un tale capovolgimento delle funzioni e dei ruoli, laddove il ladro indica la guardia chiamata a fare rispettare la legge, denunciando le regole come impedimento ad una sua “libertà” che è solo il falso nome che si dà alla licenza di sopraffazione degli uni sugli altri. Quanto ci sia di ciò nel tripudio di demenzialità e sovversivismo che ha accompagnato l’assalto delle settimane scorse a Capitol Hill, lo può dire, a questo punto, la nostra stessa coscienza degli eventi e delle loro dinamiche. Beninteso, per rimanere ad un esempio eclatante, tra i diversi possibili che stanno costellando la nostra età affaticata.

Claudio Vercelli