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Un metodo contro i pregiudizi
Un metodo per contrastare in modo intelligente pregiudizi e stereotipi. A proporlo è la raccolta di saggi L’ebreo inventato (ed. Giuntina), curata da Saul Meghnagi e Raffaella Di Castro.
All’interno del volume, realizzato con il contributo di Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Unione Giovani Ebrei d’Italia, gli interventi dei due curatori e di David Bidussa, rav Roberto Della Rocca, rav Riccardo Di Segni, Fiona Diwan, Daniele Garrone, Davide Jona Falco, Gadi Luzzato Voghera, Livia Ottolenghi e Claudio Vercelli.
Ve ne proponiamo un brano.
Una delle cose sconvolgenti è che l’idea delle discriminazioni e dell’annientamento del popolo ebraico, nel XX secolo, si sviluppa in Europa, nel continente dell’Illuminismo, dei valori di «libertà, uguaglianza, fratellanza», dell’autodeterminazione dei popoli, dello Stato di diritto, cioè nel continente che ascrive a sé i valori fondamentali della democrazia. La Shoah trova la sua realizzazione concreta in Germania, un paese che ha contribuito in modo decisivo alla filosofia, alla letteratura, alla musica, all’arte. Lo sterminio è l’applicazione programmata della scienza, dalla quale si attendeva piuttosto un decisivo sviluppo delle condizioni di vita e di lavoro di molte popolazioni. Ad esso hanno collaborato, non solo gli ideatori del crimine, coloro che ne avevano posto le basi ideologiche, ma vari «autori», tedeschi e di altri paesi occupati, con una moderna e terribile divisione del lavoro tra «specialisti» diversi: ingegneri, medici, biologi, tecnici, progettisti, impegnati nel fornire ai carnefici i mezzi più raffinati per lo svolgimento del loro compito.
La Shoah resta, anche per questo, un evento che incide su tutta la cultura e l’identità europea. Per gli ebrei è un passaggio che riguarda, non solo i pochi superstiti, ma anche le generazioni successive e il gruppo nel suo insieme. Dopo la Shoah, l’ebraismo europeo, depauperato di molte delle sue risorse umane, ha faticato a ritrovare una propria originale elaborazione identitaria, fondata sulla salvaguardia della propria specificità e la partecipazione civile in un contesto democratico più ampio.
Oggi, dopo oltre settanta anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, la possibilità di nuove tragedie non è esaurita. Resta una relazione ineludibile tra la memoria di quell’evento tragico e la percezione di un costante pericolo, come fattori che agiscono sulle coscienze e sulle dinamiche della costruzione identitaria. La convinzione di «potersi e doversi difendere» ha assunto un carattere addirittura di «valore» tra gli ebrei.
Da ciò il rafforzamento di due processi, già presenti prima della Shoah, ma che ora assumono maggiore pregnanza: la ricerca di ridefinizione di sé in contesti nazionali di cui si ha la cittadinanza; l’opzione, attraverso il «sionismo», della costruzione di un’entità statale specifica, come condizione per la propria liberazione da ogni forma di discriminazione. L’idea di nazione, nel senso moderno del termine, e la stessa nascita di Israele, traggono la loro origine dalla dinamica che aveva accompagnato, durante l’Illuminismo e poco prima, lo sviluppo di una coscienza politica indipendente dalle forme di identità religiosa e, successivamente, l’affermarsi dell’idea della separazione politico-istituzionale tra Stato e Chiese.
Lo sviluppo di un’autodeterminazione nazionale, con il sionismo – che ha connotazioni diverse, religiose e laiche –, apre un problema inedito: la nascita di Israele inaugura infatti una differenziazione tra ebrei che, in tale paese, godono di sovranità, residenza e cittadinanza ed ebrei della diaspora che beneficiano delle stesse condizioni negli Stati in cui vivono. È questa la ragione per la quale si è voluto precisare la fondamentale differenza tra «nazionalità» e «cittadinanza»: gli ebrei posseggono, in genere, la cittadinanza dei paesi di residenza, mentre la loro nazionalità ha un contenuto composito, fatto al tempo stesso dell’appartenenza al popolo ebraico e di quella al popolo con cui condividono altre parti di storia, lingua, aspirazioni, forme di convivenza.
Gli ebrei, nel corso di una lunga storia, che si è cercato di ripercorrere nei suoi caratteri essenziali, hanno subito umiliazioni come singole persone, come appartenenti a una comunità, come gruppo religioso, come popolo. Si sono trovati, in diversi periodi e in molti luoghi, a dover difendere la loro caratterizzazione, la loro tradizione, la loro cultura, la loro religione. Hanno visto negato il valore della loro specificità, sono stati denigrati, disprezzati, isolati e, infine, perseguitati al fine di distruggerli come popolo. Dopo la Shoah, tuttavia, nelle democrazie, al di là del persistere di episodi di intolleranza, gli ebrei godono di un riconoscimento formale, giuridico e sociale. Tale condizione, legata ai diritti propri della cittadinanza, non riguarda d’altronde solo questa piccola minoranza. La sfida della democrazia, infatti, è quella di regolare la convivenza tra sensibilità e identità diverse, a volte in contraddizione e conflitto radicale tra loro, quasi sempre plurime nei propri riferimenti di valore e di modi di essere. Il futuro dipende da dinamiche e processi complessi: non può essere prefigurato semplicemente in termini di crescita che, in sé, non è condizione per un’effettiva giustizia ed equità. Migliori condizioni di vita, di istruzione, di sicurezza sociale non sono il risultato «naturale» della maggiore efficienza e capacità dei sistemi produttivi. Una società che pretende di ignorare i propri limiti e le proprie possibilità è destinata a generare distruzione.
Saul Meghnagi, Consigliere UCEI
(24 gennaio 2021)