La cura delle parole

L’antigiudaismo di matrice cristiana, come sottolineò con acume Jules Isaac (offrendo e proponendo degli strumenti storici e culturali importanti per una revisione teologica), affonda le sue radici nell’insegnamento del disprezzo e nella demonizzazione che ha fatto da sfondo alla teologia preconciliare della caduta e della sostituzione del “Vecchio Israele”, con il “Nuovo Israele” “dello spirito”. Nella rappresentazione della loro presunta “caduta”, gli ebrei erano condannati ad errare sino alla fine dei tempi, umiliati e segnati da un marchio indelebile che solo la conversione avrebbe potuto eliminare. Funzionali alla rappresentazione identitaria della Chiesa doveva rappresentare nella loro condizione umiliata una conferma del trionfo. Con l’abolizione della infamante e delirante accusa di “deicidio”, il Concilio Vaticano II ha rappresentato una rottura radicale sul piano religioso, morale e culturale, che ha aperto la strada allo sviluppo di un dialogo e di un’amicizia con le istituzioni ebraiche che nei decenni si è ampliato e si è rafforzato. La giornata del Dialogo fissata dalla Conferenza episcopale italiana nel settembre del 1989 s’avvia dopo 31 anni a raggiungere “il mezzo di cammin di nostra vita”, evocato da Dante con riferimento al Salmo 90, con la sua possente rappresentazione dei millenni che agli occhi della Divinità sono come giorni. Ragionando sul lungo periodo, ma la vita di ognuno è fatta di anni, le cose appaiono in una luce diversa, nel bene e nel male.
Da “perfidi” gli ebrei sono diventati “fratelli maggiori”, cari a Dio, nei confronti dei quali la Chiesa ha degli obblighi di riconoscenza e una necessità di riparazione. Un rovesciamento speculare di immagini in un cui l’ambivalenza (che in altre forme persiste ed è operante) cambia di segno, rendendo possibile un confronto più franco, che ha come sfondo una maggiore capacità di ascolto reciproco, di amicizia e di fiducia. Chi facesse un viaggio in un passato nemmeno lontano, quasi non crederebbe ai cambiamenti avvenuti. Lo scambio di ambasciate fra lo Stato di Israele e la Santa Sede, ha impresso un’ulteriore spinta allo sviluppo del dialogo e della comprensione reciproca su aspetti che non sono stati pienamente esplorati. Il rifiuto antiebraico persiste in forma esplicita negli ambienti religiosi del cattolicesimo che si oppongono a questa svolta. Ma non è da sottovalutare. Le sedimentazioni più antiche del pregiudizio, la pervasività di un insegnamento plurisecolare in cui la Chiesa rappresentava il “nuovo Israele” (l’Israele dello spirito) contrapposto al “vecchio Israele” (“l’Israele della carne”), sedimentati nel linguaggio e nelle arti, con il perdurare e periodico riaffiorare di tesi incentrate sull’arbitraria opposizione tra l’insegnamento dei due “Testamenti” (il Dio della “vendetta”, contro il Dio “dell’amore” di Marcione), sono all’origine di frequenti corto circuiti culturali che si riflettono in atteggiamenti di incomprensione e talvolta di opposizione e svalutazione di elementi importanti e peculiari della tradizione religiosa ebraica. In contesti di crisi politica e sociale prolungate possono veicolare nuove forme di ostilità antiebraica. L’antisemitismo di matrice preconciliare e di origine “marcionica” si è innervato facilmente nell’antisemitismo moderno di matrice “razziale” fornendo un serbatoio di immagini demoniache che hanno tragicamente contributo a fissare una rappresentazione negativa, di svalutazione, di estraneità e di pericolosità che possono ripresentarsi e declinarsi in forme diverse e apparentemente lontane, che richiedono un’attenzione speciale e condivisa alla cura delle parole.

David Meghnagi, psicoanalista