La vita nei ghetti

L’aggiornamento in lingua inglese del volume di Serena Di Nepi, Surviving the Ghetto. Toward a Social History of the Jewish Community in 16th-Century Rome (Brill, 2021), rappresenta un notevole traguardo, appena si consideri che soltanto la lingua di Shakespeare costituisce il passaporto scientifico necessario per essere letti e conosciuti ovunque (i passaggi che riporteremo sono stati tradotti da noi).
Il volume contiene delle tesi di notevole interesse, che dovrebbero ravvivare il dibattito sulla condizione ebraica nei ghetti, e non è agevole scegliere fra la ricchezza di argomenti. La brillante autrice fa riferimento ad una “classic top down pyramid” che fa ricordare la piramide borochoviana, che però conosce uno svolgimento inverso. Certamente siffatta piramide “top down”, riflette la stratificazione sociale del ghetto romano, ma non è speculare a quella del mondo circostante, dove i commercianti non costituivano la maggioranza della popolazione.
È significativo che la stratificazione sociale perspicuamente descritta da Di Nepi sia stata imposta dal potere dominante, il cui vertice, con espressione icastica, era il c.d. Papa Re, che riuniva in una sola figura il potere spirituale e quello temporale.
Pur nella vastità e ricchezza del lavoro, troviamo un motivo ispiratore del pregevole lavoro – non certo il solo – che è costituito dalla visione delle mura del ghetto, quale “elemento di passaggio e connessione, non di separazione” che nondimeno rivestivano il significato simbolico della sconfitta del popolo d’Israele (p. 230) in una concorrenza indispensabile e così palese da non essere vista– soggiungiamo noi- del cristianesimo con l’ebraismo.
Certamente, presentare il ghetto come una sede autosufficiente e non permeabile, come si è soliti fare, rischia di elaborare un’immagine falsata e retorica. L’autrice asserisce anche che “..lo scopo della Bolla era chiaramente di impedire agli ebrei di praticare le professioni lucrative e prestigiose che consentivano di essere considerati ricchi. Una volta che la normativa emanata da Papa Paolo IV entrava in vigore, in linea teorica lo scarto fra norma e realtà avrebbe comportato una modifica dello status degli ebrei Come detto, ciò non accadde. Si rende pertanto interessante chiedersi come la società ebraica si sia adeguata al ghetto, e come la vita istituzionale della comunità si sia organizzata in questa prima fase”.
(p.18 ss sulla classe emergente, v. p. 180).
Al riguardo, Enzo Sereni aveva detto nel 1940 che “la borghesia ebraica italiana, della quale vantavamo la moralità fedele e profonda, l’attaccamento esemplare alla vita familiare, allo scoppiare della prima burrasca, ha rivelato tutta la sua debolezza e la sua decadenza e ha dimostrato che la sua anima è ancora prigioniera nelle mura del ghetto, con tutte le sue lacune e i suoi terribili difetti” (Per non morire. Enzo Sereni, a cura di Umberto Nahon, Federazione Sionistica Italiana, Milano, 1973, p.168). Questo volume viene in soccorso di chi volesse rivolgersi ai temi attuali, avendo ora l’occasione di usufruire di dati di prim’ordine sul nostro passato. Perché è vero che nel ghetto si è tenuta in vita la fiamma dell’ebraismo, grazie all’iniziativa della classe più elevate e per via dell’abnegazione e delle sofferenze inenarrabili dei c.d. “mediocri”, (le stratificazioni sociali riguardavano ”banchieri, ricchi e mediocri”) come in qualsiasi altra società. Tuttavia, pur non essendo visibili, si vi sono ancora le ferite inferte dalla clausura forzata, dalle leggi razziali e dalle deportazioni.
Tutti argomenti di grande originalità e connotati da un elevato taglio scientifico che rendono l’apporto della Di Nepi un prezioso punto di riferimento per gli studiosi che vorranno cimentarsi nelle numerose vene di questa bella miniera a cielo aperto, nella quale l’autrice ha profuso il suo talento e il suo prezioso impegno di storica.

Emanuele Calò, giurista