Memoria come cura

Diciamocelo fuori dai denti. Stride il contrasto fra la puntuale ripresa, intorno al 27 gennaio, del lungo rituale della Memoria che ogni anno ci accompagna dalla metà del mese sino ai primi di febbraio e il moltiplicarsi degli episodi di antisemitismo che segnalano l’allarmante crescita, nella società, di una visione oscurantista e di una specifica pulsione antiebraica. È sempre più difficile sostenere che ripercorrere il passato di persecuzione possa servire a non replicarlo. Andando oltre i rodati meccanismi della consuetudine culturale che caratterizzano ormai il Giorno della Memoria, appare allora lecita la domanda radicale, non solo mia peraltro: ha un senso continuare il percorso intrapreso? Ha un senso, soprattutto, continuarlo con le modalità ormai istituzionalizzate (sclerotizzate?) con cui lo ripetiamo da venti anni?
Alcune precisazioni, a scanso di equivoci. Le domande precedenti ottengono una risposta naturalmente positiva da parte di coloro che (e io tra questi), già sensibili alla riflessione indotta dalla memoria, tutti gli anni si ripiegano commossi su se stessi ripercorrendo con fatica le tracce delle tante storie narrate. Costoro conoscono perfettamente e annualmente riscoprono l’importanza della ricorrenza segnata sul calendario, da celebrare ogni volta come una consuetudine sino a radicarsi nell’interiorità come obbligo giustamente ripetitivo. Il problema che dà senso a quegli interrogativi nasce però dal fatto che soffermarsi ogni anno a ricordare, a raccontare, ad analizzare la Shoah ha come principale obiettivo quello di creare nel tempo una conoscenza partecipe nell’intera società, una consapevolezza capace di farsi coscienza civile, così da scongiurare la permanenza di una mentalità intollerante e della tendenza al pregiudizio. Mentre purtroppo, nonostante l’intensità e l’alto valore di tante delle numerose iniziative dedicate alla memoria della persecuzione, non possiamo dire che la diffusa atmosfera di rifiuto per il diverso e in particolare l’odio antisemita di alcuni gruppi si siano attenuati. Ciò non significa comunque che di fatto venga meno la funzione del Giorno della Memoria. Piuttosto, si tratta in qualche modo di rifondare strategicamente la realizzazione di questa giornata.
Infatti la questione è più vasta della semplice alternativa tra conferma o abolizione. Occorre innanzitutto ribadire che non può bastare un’occasione annuale di conoscenza a sconfiggere un nemico come il pregiudizio, radicato in determinati ambienti sociali e nell’ideologia che li nutre. Sgombrato il campo da un’aspirazione impropria e lasciato ad altre armi (psicologiche, sociali, politiche) l’onere di un’azione sistematica contro l’odio antisemita, il Giorno della Memoria potrebbe utilmente accentuare il suo ruolo di strumento formativo per le giovani generazioni e divenire addirittura un mezzo di cura per l’intera società. Sì, perché è proprio di memoria storica che il nostro mondo ha bisogno: la conoscenza dei fascismi europei e dei loro crimini, delle leggi razziste del 1938 e delle loro conseguenze, delle tappe e delle vicende dello sterminio è oggi davvero molto carente; un vuoto che le tante iniziative di divulgazione proposte dai mass media non riescono di fatto a colmare, e che può invece alimentare incomprensione e rifiuto pregiudiziali. Il periodo vicino al 27 gennaio può divenire una risposta collettiva a questo bisogno generale di conoscenza attraverso la proposta diffusa di percorsi storici d’assieme chiari e analitici, a cui legare – come sentieri di uno stesso itinerario complessivo – singole vicende di vissuto personale. Le storie individuali, sbocco naturale del serbatoio della memoria e preziosa risorsa formativa, esprimono appieno la loro portata comunicativa solo se colte nel contesto della dinamica storica complessiva di cui sono espressione. Ecco perché, senza dare per sottintesa una conoscenza approfondita e adeguata del tessuto di ideologie-programmi politici-pianificazioni sociali-scelte di potere-concatenazione di eventi che sta alla base del lucido percorso di annientamento che noi chiamiamo Shoah, mi pare necessario collegare le insostituibili perle di memoria che già oggi formano il contenuto del nostro 27 gennaio a un percorso di precisa ricostruzione storica. Spesso gli itinerari personali e gli abissi di dolore che essi celano poggiano, nell’informazione collettiva, su elementi troppo vaghi e imprecisi perché possano essere rivissuti con autentica consapevolezza.
Perché questo cambiamento di orizzonte possa verificarsi è necessario però che vengano meno alcuni aspetti divenuti ormai consuetudine del Giorno della Memoria. Il ricordo dello sterminio e della deportazione deve cessare di essere il distintivo etico all’occhiello, il fioretto morale/civile di enti gruppi associazioni istituzioni varie che in ordine sparso e tutti immancabilmente nello stesso periodo preparano e realizzano il proprio programmino di eventi sulla Shoah senza un effettivo coordinamento sui temi e sui modi specifici di concretizzazione. E questo per almeno due ordini di questioni. Tutti i soggetti operano certo animati da nobili finalità umane e formative, ma l’ “obbligo” non scritto di dedicare uno spazio alla memoria si presta a letture non piacevoli di questa scelta, che può anche apparire dettata più da ragioni di immagine che da autentiche motivazioni spirituali. Inoltre, nella sostanza, non appare produttiva la replica in serie di iniziative diverse ma simili, riconducibili a singoli differenti organizzatori ciascuno intento a coltivare il proprio orticello della memoria. Innanzitutto, è la dimensione stessa della memoria a caratterizzarsi per la sua “unicità”, a vivere di una propria “irripetibilità” rigettando quindi una prassi “seriale”. La presentazione ravvicinata e spesso (come forzatamente accade) in contemporanea di vicende particolari rischia poi seriamente di produrre indesiderati e preoccupanti effetti di overdose su un pubblico solo fino a un certo punto interessato e coinvolto: non è preferibile rallentare il ritmo cercando di suscitare curiosità e commenti personali, piuttosto che accatastare/appiattire una storia sull’altra togliendo a ciascuna il suo giusto respiro, lo spazio successivo destinato alla riflessione e all’elaborazione? E tale fase di elaborazione – per la quale oggi c’è poco spazio dato l’incalzare dei fittissimi eventi di quelle giornate – non sarebbe favorita da una più approfondita conoscenza delle strutture e delle vicende storiche di fondo?
Il fatto è che il Giorno della Memoria è divenuto suo malgrado una corsa affannosa alla produzione/riproduzione di eventi, una gara mediatica tra ideatori/organizzatori diversi, tutti costretti a far entrare nello stesso troppo breve contenitore le loro innumerevoli creazioni. Non è questo però, mi pare, lo spirito della manifestazione. Ci vorrebbe un po’ più di calma per cogliere, valutare, riflettere. Servirebbe un ripensamento generale di tutta l’iniziativa.
I soggetti promotori possono rimanere tanti e molteplici, purché legati per carattere e obiettivi alla dimensione storica, pedagogica, umana. L’importante però è che tra di loro si realizzi un coordinamento effettivo in fase di programmazione, capace di conferire forza di contenuti, efficacia formativa e una basilare incisività comunicativa a una Giornata sorta come fase di ascolto, di condivisione, di apprendimento, di educazione civile. Come cura dell’anima, insomma.
David Sorani