Fascino fascista

Scriveva Susan Sontag, in un memorabile saggio con il quale analizzava l’opera della regista tedesca Leni Riefenstahl, già nelle grazie di Hitler e Goebbels, che «secondo una convinzione molto diffusa il nazional-socialismo significa solo brutalità e terrore. Il nazional-socialismo – più in generale, il fascismo – significa un ideale, o piuttosto degli ideali che resistono ancora oggi sotto bandiere diverse: l’ideale della vita come arte, il culto della bellezza, il feticismo del coraggio, l’annullamento dell’alienazione in estatici sentimenti di comunanza; il rifiuto dell’intelletto […]». Non si tratta di idealità positive ma dello stravolgimento che i regimi totalitari sanno fare di un comune sentire, proiettandolo in un progetto politico che ben presto contempla la distruzione delle vite umane e, con esse, di qualsiasi valore che non sia quello della «razza». A ben guardare, tutti elementi che, nella loro persistenza, esercitano su alcuni dei nostri contemporanei una forza di attrazione pressoché immutata.
Esiste un fascismo storico, in quanto fenomeno politico definito, manifesto e circoscritto, quindi consegnato al passato e alla del nostro paese come dell’Europa. Sussiste, e se ne hanno manifestazioni pressoché quotidiane, un fermento neofascista, depositario, nelle sue componenti organizzative come nei suoi postulati ideologici, dell’apologia per i trascorsi come, soprattutto, di una terribile intenzione, ovvero quella di ripetere o veder ripetuto quel che già è successo. Ma c’è un altro fascismo, assai meno percepito e per questo ben più pervicace e suadente, che si rinnova costantemente all’interno delle nostre comunità, ancorché queste sono o siano pervenute, e da tempo, nelle forme così come nei contenuti, ad una pratica democratica. Pratica che dovrebbe informare di sé ogni aspetto della nostra quotidianità, quindi non solo di quella politica, e che dovrebbe garantirci da rischi di una ricaduta nel buco nero dell’oppressione e dell’intolleranza. Ma così non è; perlomeno, non sempre riesce ad essere.
Già in anni oramai a noi lontani Pier Paolo Pasolini parlava, e con grande puntualità, di un «fascismo quotidiano» che avrebbe continuato a permeare, a suo dire, lo spirito e il corpo di una nazione. L’Italia, dopo la guerra di Liberazione, apparentemente sembrava vaccinata dal rischio di ricadute; invece covava anche i germi di una nuova regressione. Nel far ciò lo scrittore non si riferiva tanto alla persistenza di nicchie politiche ispirate a quella dottrina quanto ad una somma di atteggiamenti, di disposizioni d’animo, di condotte apparentemente insignificanti, che nel loro ripetersi e rinnovarsi costantemente denotavano tuttavia la persistenza di una vocazione autenticamente fascista. Poiché, ed era questa la sua grande intuizione da riprendere, il fascismo non è solo e tanto una filosofia politica della reazione – che si traduce, quando può, in regime – quanto soprattutto un’antropologia profonda, propria dell’uomo contemporaneo, che, con andamenti carsici, riemerge nei momenti di crisi o di difficoltà, riproponendosi come soluzione globale e radicale ai diversi aspetti problematici della modernità.
Per fare ciò identifica e raccoglie, in quanto catalogo di modernariato, miti e riti che nulla hanno perso della loro aderenza, poiché innervati nelle fantasie e nell’immaginario dei contemporanei. Proprio per queste ragioni, il fascismo – pertanto – non costituisce un residuo del passato bensì un potenziale progetto nel e per il presente. Per approvvigionarsi politicamente ed offrirsi in quanto opzione praticabile sul piano sociale, non necessita quindi di inventare alcunché. Semmai si pone come criterio di ordinamento delle diverse e sparse percezioni e, soprattutto, dei risentimenti che agitano le menti e le pance di quanti vivono il rapporto con la loro realtà nei termini di un’angosciata quotidianità e nutrendo, verso il futuro, il timore che si ha per una minaccia incombente.
Il terreno di coltura dell’eversione reazionaria è la paura, ovvero lo stato di permanente disagio emotivo che ingenera, in non pochi nostri contemporanei, il doversi confrontare con un mondo che non si capisce se non attraverso la mediazione di categorie, mentali e culturali, semplicistiche e, come tali, rassicuranti: «chi non è con me è contro di me»; «l’”altro” da me è solo un pericolo e non anche un’opportunità»; «la sicurezza mia e dei miei cari può essere garantita dall’uso della forza, tanto più se legittimata da istituzioni pubbliche»; «l’“uomo forte” è la panacea di ogni male»; «la diversità è disordine»; «la mediazione dei conflitti è solo un’inutile perdita di tempo»; «esiste sempre e comunque un complotto dei “poteri forti”» e così via. Temi vecchi e però rinnovabili – questi ed altri ancora – come si può agevolmente osservare. Temi per i quali alla progressione dei tempi e all’incertezza che essa può ingenerare si risponde con una regressione infinita, millantata come recupero di una genuinità e una sincerità che l’evoluzione delle cose avrebbe corrotto. Alla ricerca di quel Sacro Graal che sarebbe l’adamitica verginità morale dell’uomo, infranta dalla storia e dall’azione della molteplicità delle forze che la compongono.
Poiché per il fascismo le diversità sono sempre indice di confusione, non di opportunità. L’ossessione per il sempre uguale, il bisogno di livellare e distruggere il pluralismo, quindi le differenze, nel nome invece di un’uniformità che è solo la copertura ideologica delle effettive disparità di opportunità e di qualità dell’esistenza, sono l’architrave per regimi che dell’annichilimento altrui hanno fatto la propria ragion d’essere. A tali temi, e non come elementi di corredo, si sommano categorie estetiche e di comportamento comunemente diffuse, spesso fatte proprie a tutt’oggi dal pensiero di senso comune, e proprio per questo seducenti: tra di essi, la forza, la potenza ma anche la deresponsabilizzazione individuale, il conformismo di gruppo ed altro ancora. In apparenza si tratta di prodotti neutri di una cultura dei nostri tempi; in realtà, quel che davvero conta è che nell’ideologia fascista se ne faccia un uso particolare o, se si preferisce, una destinazione d’uso specifica che funge da supporto e legittimazione della concezione che essa esprime dei rapporti sociali, declinati secondo la più assoluta asimmetria dei ruoli e la cristallizzazione dei poteri.
Nulla conta, in tal genere di procedimenti mentali, la verifica con la realtà delle cose. Poiché non è del riscontro e del conforto dei fatti che va alla ricerca chi si associa a tali costrutti, bensì della reiterazione dei convincimenti nei quali si invece riconosce. Da essi trae giovamento e convincimento per la prosecuzione del suo operato che è, per l’appunto, quello di semplificare seccamente la realtà, riconducendola a poche sferzanti “verità” tanto ripetute quanto non verificabili. Nel fascismo la storia umana viene sospesa e sostituita da un campo mitologico che interagisce con i fatti, subordinando i secondi al primo. Il fascismo, per parafrasare il drammaturgo e poeta Jean Genet, è allora anche teatro, rappresentazione mistificatoria, macchina dell’affabulazione e del sovvertimento logico. Se i fatti non corrispondono alle aspettative, tanto peggio per i fatti stessi.
Siamo quindi nel campo dell’autentico pregiudizio che si fa materia vivente e dominante; ma qual è la trama dei regimi totalitari, almeno sul piano culturale e simbolico, se non esattamente quella che si sostiene su un sistema di relazioni basato proprio sul pregiudizio sistematico? Cosa sono se non una formidabile macchina di enfatizzazione e ripetizione di luoghi comuni consolidati e, come tali, condivisi? Cosa rappresentano se non uno strumento di legittimazione della paura, per l’appunto, e del corollario di vincoli, censure, autolimitazioni, interdizioni che rendono la vita privata (o dei privati) completamente soggiogata ad un potere pubblico che è, ovvero si vorrebbe, per l’appunto totale e totalizzante? Affinché ciò avvenga è tuttavia indispensabile che il singolo si senta integralmente deprivato del diritto di rivendicare diritti. Ovverosia, che ritenga di non valere alcunché da solo e pertanto di reputarsi riconosciuto e protetto solo nella misura di una sua completa subordinazione ad un potere onnisciente e onnipotente che non solo vede ma anche, e soprattutto, provvede alle sue occorrenze. Chiedendogli, come contropartita, l’assoggettamento totale, fino al sacrificio della sua propria vita, laddove ciò dovesse risultare d’utilità per la classe dirigente stessa. I cui interessi particolari vengono quindi presentati come invece generali. In questa proiezione e cancellazione del singolo nella comunità vi è l’adesione del primo ad una sorta di concezione magica ed infantile della seconda. Che si presenta non come il prodotto di un insieme di volontà consapevoli così come dato storico di un percorso di evoluzioni e trasformazioni bensì come la risultante di una vocazione il cui fondamento e la cui legittimazione si fondano sul richiamo ad una non meglio definita «tradizione», che sarebbe immutabile e invariata.
Tutta la storia d’Europa, a fare dalla Rivoluzione francese, è la narrazione dello sforzo di milioni di donne e di uomini per rendersi liberi. E la libertà è emancipazione, ossia superamento della condizione di sudditanza dal bisogno, che sia materiale piuttosto che psicologico. Perché ciò si realizzi necessita che si faccia a meno delle proprie illusioni. Non è cosa facile, in quanto ciò richiede individui temprati allo sforzo della ragione e della mediazione, della temperanza ma anche della passione. Soprattutto, invita ognuno di noi a farsi, in associazione con i propri pari, costruttore del suo presente come del proprio futuro. Il senso della cittadinanza dovrebbe essere propriamente questo e non altro.
Il fascismo, invece, alimenta la dipendenza dall’angoscia, nutrendosi d’essa per avvantaggiarsene e beneficiarne. Poiché è soprattutto pratica della dipendenza; affinché ciò si produca e si rinnovi nel tempo deve quindi avere a che fare con donne e uomini asserviti al timore. Non importa quale, ovvero la sua natura; basta che sia tale da sovrastare e inglobare ogni prospettiva di vita, deviandola verso un esito etero-diretto, quello della volenterosa subordinazione ad un’istanza politica superiore che governa gli uomini ma anche – e soprattutto – che li libera dall’ansia di emanciparsi.
In questa congerie di elementi dove sta il fascino del quale si è fatta menzione in esordio? In cosa consiste e in quale misura si coniuga con l’agire fascista? Come lo connota? Se la premessa è che il vecchio si presenta con i caratteri della novità, la seduzione dell’apparentemente inedito si evidenzia manifestando i tratti di una presunta fedeltà all’arcaico. Affascina la ripetizione, la maniacale aderenza a procedure rituali e a identificazioni totemiche, la compulsione che sta dietro alla liturgia della politica ridotta a mera religione di massa. Piace la dimensione apologetica, auto-celebrativa, enfatica, dove le individualità si annullano in una dimensione corale. Siamo in molti, non contiamo nulla se non come massa, non abbiamo più nessuna responsabilità. L’indifferenza e la mancanza di empatia che sono parte integrante dei dispositivi razzisti crescono agevolmente all’interno di questa cornice.
Ci occorre capire, quindi, i tratti e i caratteri di quelle persistenze, ovvero di quell’insieme di elementi che caratterizzano il fascismo come fenomeno sub.culturale – quindi come ideologia della modernità – e che lo fanno non solo e non tanto idea quanto stile di comportamento e di condotta adottabile all’occorrenza da comunità distinte in epoche diverse. Non si deve temere, procedendo in questo modo, di perdere di vista i connotati politici ed economici che pur ne sono colonna vertebrale. Non viene meno, usando questa strategia interpretativa, la consapevolezza che i fascismi storici sono anche espressione, concertata, di interessi specifici e manifestazione della decadenza di un certo tipo di élite, alle quali ne subentrano altre, fondate sul plebeismo. Piuttosto si arricchisce il quadro con ulteriori elementi di riflessione. Poiché c’è una cosa che deve essere chiara, ovvero che linguaggi e moventi di quel terribile passato sono presenti, più che mai, nel nostro presente, sia pure in forma molecolare. Ma se le molecole si combinano tra di loro, disponendosi secondo un disegno che già ci si era configurato, nulla vieta che il tutto scivoli verso un qualcosa di già visto. La storia non si ripete ma alcuni sui elementi non sono per nulla scomparsi. Si riparte quindi da questa consapevolezza.

Claudio Vercelli

(31 gennaio 2021)