Controvento – Elogio
di una vita minima

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, è mancato mio cugino Alessandro Nistor. Noi lo chiamavamo Sandel. Era un uomo di profonda e multiforme cultura, di intelligenza fuori dal comune e di squisita sensibilità umana.
In un mondo in cui tutti sognano la notorietà, sgomitano per apparire, inanellano followers, aspirano alle luci della ribalta, lui aveva scelto di vivere nell’ombra. Una vita minima, come quella di William Stoner, protagonista del formidabile romanzo di John Williams, o dell’indimenticabile scrivano Bartleby di Melville. “I would prefer not to”, una scelta esistenziale di cancellarsi dalla competizione e di essere semplicemente sé stesso, circondato dai suoi libri – è l’unica persona che io abbia conosciuto ad avere affittato un appartamento adiacente alla sua abitazione al solo scopo di tappezzarlo di volumi, meticolosamente inventariati con raffinate tecniche di catalogazione che aveva appreso da uno dei grandi amori della sua vita, la bibliotecaria Tamar. Gli amori, a quelli non aveva rinunciato, nonostante il suo aspetto non facesse sospettare una carriera da dongiovanni. Ogni tanto, nella riservatezza dei suoi discorsi, si affacciava il nome di una nuova amica. Poetesse, professoresse – come la moglie Amelia, che fece amare la matematica a generazioni di ragazzi delle scuole pubbliche milanesi – psicologhe, dottoresse. Donne che sapevano apprezzare la sua anima nobile e schiva racchiusa in un fisico sfortunato – e che pena dovette essere per lui, cultore dell’armonia e della bellezza, studioso dell’aurea proporzione e dell’estetica medioevale…
Era un Cohen, e nonostante non fosse particolarmente osservante, a questa nobiltà teneva molto, si sentiva testimone di una sacralità millenaria, che ininterrottamente dai tempi biblici era stata trasmessa fino a lui.
Sandel, il mio adorato cugino Sandel, ha attraversato il secolo breve come un testimone consapevole e silenzioso. Senza mai una recriminazione, ma con la lieve ironia distaccata di chi sa che “tout passe, tout lasse”, e bisogna assecondare, non contrastare il percorso della vita.
Si è spento come una candela dello Shabbat, a novant’anni, di consunzione. Silenziosamente, senza disturbare, come aveva scelto di vivere. Sentiva scemare le forze fisiche e intellettuali e quella vita dimezzata lo umiliava, lui sempre così presente e acuto. Sono felice per lui. Che ha saputo uscire di scena al momento giusto, come cantava Aznavour: “il faut savoir, coûte que coûte, garder toute sa dignité et malgré ce qu’il nous en coûte, s’en aller sans se retourner..”
La nostra cultura drammatizza la morte. Ma la morte è parte essenziale della vita, è ciò che alla vita dà un senso. Veniamo e andiamo, e non ci è dato sapere da dove e verso dove, forse il nulla, forse una esistenza migliore. La morte è tragica per i giovani, per chi lascia figli da crescere e genitori da assistere. È tragica se interrompe un percorso a metà e crea cesure drammatiche, se l’assenza diventa devastante per chi rimane, se la sofferenza distrugge il fisico e la mente, se la malattia crea dolore e angoscia insostenibili….
Ma quando il ciclo della vita si è compiuto, e si ha a fortuna di spegnersi senza soffrire, la morte può essere un passaggio liberatorio, come sostengono le filosofie orientali. Di questo dovremmo ricordarci. La nostra società non accetta la morte, la considera una sconfitta – della scienza, della onnipotenza, della supremazia umana.
Mi piace immaginare che Sandel, messo di fronte alla prospettiva di una vita ridotta, abbia detto “preferisco di no”, e si sia lasciato andare. Mi mancherà l’uomo che è stato, non quello che sarebbe probabilmente diventato e sono felice di poterlo ricordare integro, presente a sé stesso.
Che il suo ricordo sia di benedizione.

Viviana Kasam