Primo Levi a Bologna – La mostra
“Le sue parole un atto d’amore”
Nel 1961 Francesco Berti Arnoaldi Veli, il “partigiano Checco”, invita Primo Levi a portare la sua testimonianza sull’esperienza del lager a margine di una lezione tenuta da Enzo Enriques Agnoletti nell’ambito della rassegna Trent’anni di storia italiana. Un ciclo di dodici appuntamenti serali presso il Teatro comunale di Bologna. Insieme a Primo Levi, quella sera ci sono anche Giorgio Bassani, Piero Caleffi e Giulio Supino. Tre ebrei e un prigioniero politico. Due internati e due scampati alla persecuzione e alla cattura. Tutti, compreso Enriques Agnoletti, fratello della partigiana Anna Maria uccisa dai nazisti il cui padre era ebreo, sono uniti dal comune sentimento antifascista.
La rassegna delle lezioni di storia italiana, che fa seguito ad altre due analoghe già svoltesi in anni precedenti a Roma e a Torino, nasce proprio dall’urgenza di consolidare la ritrovata democrazia tramite la memoria dei tragici fatti accaduti sotto la dittatura fascista e nel periodo della guerra.
Un appuntamento attorno al quale ruota la mostra “1961. Primo Levi a Bologna”, curata da Caterina Quareni. L’elaborazione online di una mostra che il Museo ebraico cittadino aveva organizzato nel 2016 in collaborazione con l’Istituto Storico Parri Emilia-Romagna. Tra i nuovi contenuti proposti in digitale una videolezione di Alberto Cavaglion, storico e docente dell’Università degli Studi di Firenze, tra gli studiosi più apprezzati dell’opera di Primo Levi.
Racconterà Levi al pubblico bolognese: “Si dice fame, ma è una cosa diversa dalla fame che tutti conoscono, è fame cronicizzata, e non risiede più nei visceri, ma nel cervello, è diventata un’ossessione, non la si dimentica in nessun istante della giornata; e di notte, dal principio alla fine del sonno, non si sogna che di mangiare o, meglio, si sogna che si sta per mangiare, ma poi, come nel mito di Tantalo qualcosa, all’ultimo istante, fa sì che il cibo scompaia.
“Si dice fatica ma nella vita comune nessuno esperimenta questa fatica, che è quella delle bestie da traino, è fatica più disprezzo, fatica senza scampo, senza pietà da parte di chi la impone, fatica accompagnata dalla nozione di inutilità, bestiale ed estenuante e priva di scopo. Si dice freddo, ma anche il più umile mendicante trova un giaciglio caldo, un bicchiere di vino. (…)
“Ma i rari momenti di sosta, di assenza dal dolore fisico e di disagio, quali ad esempio gli eccezionali giorni di riposo (io ne ho avuto solo cinque in un anno), sono pieni di un altro genere di dolore, non meno angoscioso: è il dolore umano, quello che nasce dal ritorno alla coscienza, dal riprendere percezione di quanto sia lontana la casa, quanto improbabile la libertà, dal ricordo dei propri cari, vivi ed inaccessibili, oppure mandati a morte come bestie al macello”.
La testimonianza otterrà un enorme successo. Rivolgendosi al Testimone, alcuni giorni dopo, Berti scriverà: “Caro Levi, è difficile, e pericoloso, dire che si è contenti. Eppure gli amici del Comitato organizzatore ed io siamo contenti della lezione sul nazismo e le leggi razziali in Italia, perché non ci era ancora avvenuto di sentire una tale fusione tra relatore e testi; né ancora avevamo visto il pubblico e, diciamolo pure, noi stessi, colpiti da tale emozione. Ed ora io dovrei dirle che le sue parole hanno turbato molti, e che tra i molti c’ero anch’io: dovrei riferirle l’ammirazione, la gratitudine, l’apprezzamento di amici che hanno voluto anche telefonarmi nei giorni seguenti la lezione. Ma la sua modestia forse non lo gradirebbe. Voglio solo dirle che, udendo la sua parola, ho sentito (e non io solo) un invito all’amore tra gli uomini. Continui, continui a portare ai giovani ed ai non giovani la sua testimonianza che ha il valore d’un atto d’amore. Nulla vale più della parola di colui che ha sofferto e non odia”.
(1 febbraio 2021)