“Liliana, Testimone
e maestra di pace”

L’impegno costante per promuovere “giustizia sociale, convivenza pacifica e ripudio dei conflitti” è valso a Liliana Segre una nuova laurea honoris causa, in Scienze della Pace, assegnatale quest’oggi dall’Università di Pisa. Una cerimonia parzialmente in presenza, nell’auditorium del polo San Rossore 1938 che nel nome ricorda la ferita delle leggi razziste firmate, in quell’anno e in quel luogo, dal re Vittorio Emanuele III. 
Tra i meriti della senatrice a vita, ha osservato il rettore Paolo Mancarella, c’è quello di aver “tutelato la storia e la Memoria della Shoah, facendone uno strumento per alimentare, in primo luogo nei giovani, quei valori di fratellanza e di rispetto in cui il nostro ateneo si riconosce pienamente”. Una straordinaria ambasciatrice di pace, quindi, “in un momento in cui l’Italia si scopre divisa e incoerente rispetto a valori che dovrebbero essere condivisi”. 
Idealmente, per l’ateneo pisano, la continuazione dell’impegno assunto nell’ottantesimo anniversario dalla promulgazione dei provvedimenti antisemiti attraverso l’organizzazione della “cerimonia delle scuse e del ricordo” dedicata ai docenti e agli studenti ebrei che furono allora cacciati. 
Un riconoscimento (la cui motivazione è stata letta dalla professoressa Eleonora Sirsi, presidente del corso di laurea magistrale in Scienze per la Pace) che la senatrice a vita ha accolto con emozione, rivolgendo un pensiero di particolare gratitudine all’amica Goti Herskovitz Bauer, collegata a distanza pure lei. Una vera e propria “maestra di vita”: così l’ha definita Segre, ricordando il suo fondamentale ruolo nell’assunzione dell’impegno di testimonianza.
“Oggi – ha sottolineato Segre – avete voluto onorarmi con questa laurea honoris causa e di questo sentitamente vi ringrazio. Posso solo dire che, nei limiti delle mie forze, contribuirò a quell’opera di testimonianza e di promozione dei valori storici che ritengo indispensabile non solo per il rispetto del passato, ma soprattutto per il rispetto del futuro. Per prepararne cioè uno aperto alla convivenza, al rispetto, al dialogo, alla solidarietà, all’accoglienza dell’altro”.
Liliana e Goti: un legame, oggi spesso rievocato, che nasce nel segno della Memoria, della consapevolezza, dell’amore per i giovani. Lo storico Gadi Luzzatto Voghera, direttore della Fondazione CDEC, ha lodato in questo senso l’impegno di due donne straordinarie che “hanno saputo cogliere l’emergenza di un mondo che rischiava di dimenticare, offrendo con generosità instancabile la loro voce”. Decenni di impegno che hanno finito per rafforzare anche il senso e la portata della riflessione storiografica. Nel segno di un rapporto che Luzzatto Voghera ha definito “inestricabile”: quello, appunto, tra Storia e Memoria. 
“Se le parole e il fare di Liliana Segre rappresentano un impegno che trae forza dalla consapevolezza di poter cambiare chi riceve il suo dono di testimonianza del proprio vissuto, il nostro impegno deve essere un impegno di coerenza”, ha poi affermato la Presidente UCEI Noemi Di Segni. Un impegno di ascolto e di azione, ha poi aggiunto, “paragonabile a quello avvenuto ai piedi del monte Sinai”. E questo perché “a differenza di una normale obbligazione che impegna solo il soggetto che l’assume, l’impegno di Memoria si riverbera sulle prossime generazioni”. Coordinata dal professor Fabrizio Franceschini, direttore del centro interdipartimentale di studi ebraici dell’ateneo – la cerimonia si era aperta con la presentazione del volume “Il dovere della parola. La Shoah nelle testimonianze di Liliana Segre e di Goti Herskovitz Bauer”, di Marina Riccucci e Laura Ricotti, pubblicato dall’editore Pacini d’intesa con la Fondazione Livorno. Diversi i rappresentanti istituzionali intervenuti.
A prendere la parola, tra gli altri, anche il sindaco Michele Conti, il prefetto Giuseppe Gastaldo, l’assessore regionale Alessandra Nardini. 

Di seguito l’intervento della presidente UCEI Noemi Di Segni

Un giorno di restituzione

Illustre Presidente della Comunità ebraica di Pisa Maurizio Gabrielli,
carissimi studenti, carissima Senatrice Segre, per noi tutti Liliana.
Questo giorno è un giorno che vorrei definire di restituzione. Per ciascuno di noi una restituzione con un senso diverso ma che in fondo converge verso un fine comune.
Dopo un percorso di studi, di approfondimento, di vissuto che cambia le proprie conoscenze, ci si ferma per condividere quanto appreso con un certo gruppo, un target di destinatari. In una situazione di restituzione ordinaria si sceglie la materia e l’oggetto dei propri studi e l’ambito dell’indagine.
Nella vita di Liliana Segre l’apprendimento più profondo della sua esistenza è stato il risultato di un’imposizione dall’alto – la discriminazione attuata dalle leggi antiebraiche del ’38 e poi la persecuzione fisica con la deportazione e la sopravvivenza al campo di sterminio di Auschwitz. Pietre miliari strazianti. Queste hanno determinato il suo percorso, ma sono stati la sua volontà, l’intelligenza e l’attaccamento alla vita a scegliere di farne una restituzione, a noi oggi, a migliaia e migliaia di studenti e ragazzi negli ultimi trent’anni. È con le sue parole e la sua testimonianza di quanto vissuto nella Shoah e dopo la Shoah che raggiunge ciascuno di noi.
E ciascuno di noi è cambiato dopo averla ascoltata. Non solo per la capacità del suo messaggio di penetrare nelle nostre coscienze ma per la promessa che matura dentro di noi di agire e di fare per arginare ogni probabile ripetersi di quanto da lei testimoniato. Anche quanto avvenuto prima dell’orrore. Liliana Segre, con la sua testimonianza, con la sua parola, con la sua presenza, non ha solo cambiato me e ciascuno di voi singolarmente. Ha cambiato un noi collettivo. Ha forgiato quel senso di impegno che non è solo del singolo per il suo trasporto, ma della comunità, della cittadinanza, e soprattutto dei giovani e giovanissimi.
Siamo idealmente nell’ateneo di Pisa. Luogo di sapere secolare fatto di persone – docenti e discenti – nel quale si è tenuto uno dei momenti di restituzione più significativi degli ultimi anni. La cerimonia solenne, nel settembre del 2018, di richiesta di scuse per le leggi antiebraiche del ’38 firmate a San Rossore 80 anni prima. Per quanto avvenuto tra le mura di questo luogo che ha come fondamento il sapere umano e la trasmissione del sapere – nei confronti dei professori e studenti ebrei. Nei confronti di coloro che hanno donato sapere nei secoli all’Italia che si unificava, che lottava, che si emancipava, e con fiducia lo acquisivano tra queste mura. Cerimonia toccante e profonda partecipata da tutti gli atenei italiani alla quale sono seguiti concreti impegni e azioni, coerenti con le affermazioni di intento e di responsabilità assunta, l’altro ieri per allora. Un gesto – seppur tardivo – pieno di spessore e consapevolezza di quanto sottratto. In primis, in assoluto la dignità. E se l’accademia certificava quell’inaccettabile condizione ebraica con le capacità argomentative del sapere alto, certo che ogni sigillo di legalità acquisiva autorevolezza e assolutezza e quindi immediata e coerente attuazione. Esattamente su questo oggi insiste la restituzione. Essere parimenti autorevoli nel trasmettere quel sapere che restituisce dignità, che rifiuta ogni ombra di prevaricazione e negazione di libertà.
Il conferimento a Liliana Segre nell’odierna giornata della laurea honoris causa, rappresenta un ulteriore atto di restituzione di questo ateneo, a lei e idealmente a tutti coloro che ieri e di riflesso ancora oggi sono stati privati di quella dignità, di quella verità e di quel sapere che illumina.
E se le parole e il fare di Liliana Segre rappresentano un impegno che trae forza dalla consapevolezza di poter cambiare chi riceve il suo dono di testimonianza del proprio vissuto, il nostro impegno deve essere un impegno di coerenza. Non di un ascolto o di un agire selettivo. Un impegno di ascolto e d’azione paragonabile a quello avvenuto ai piedi del monte Sinai. Perché a differenza di una normale obbligazione che impegna solo il soggetto che l’assume, l’impegno di memoria è un impegno morale che si riverbera sulle prossime generazioni. Un’obbligazione morale di narrazione della verità che assumiamo noi anche per loro.
Il prossimo sabato leggeremo nella parashà, la porzione di lettura settimanale della Torah, i dieci comandamenti. Il fulcro biblico della morale umana, divenuto universale, quantomeno nelle religioni monoteiste e della nostra civiltà. Un nucleo – se vogliamo presidio costituzionale dei rapporti tra uomo e il dio – uomo e la creazione con l’imperativo del riposo sabbatico – uomo e i suoi genitori – uomo e uomo. E l’essenza di questo nucleo è la consapevolezza del limite. Esattamente ciò che fu superato allora, precipitando nell’abisso del vuoto totale di legalità, di umanità. Esattamente ciò che deve essere garantito anche oggi alla nostra società. Il senso del limite.
Ma appena prima di questa lettura solenne capiremo che Mosè introduce – su consiglio del suocero Itrò – un sistema di separazione di poteri, di decentramento e di delega. Non solo non può reggere da solo l’infinito carico di lavoro ma ben comprende – umilmente e umanamente – che per raggiungere un obiettivo di presenza, ascolto attento e decisione di giustizia deve lavorare assieme ad altri ed articolare un sistema di magistratura per livelli e nominare dei responsabili, selezionando uomini timorosi di D-O, uomini di verità, uomini che odiano la corruzione. Quindi uomini che sanno ragionare con la propria mente. Non uomini obbedienti al leader. E cosi a Mosè vien detto di preavvisare il popolo di quali siano le regole e gli statuti, la strada da seguire e gli atti da compiere in bene – perché non si può giudicare ed esigere il rispetto di leggi non preordinate e non accettate. È il basilare concetto di legalità. E se cosi farai – dice il saggio Itrò a Mosè – allora raggiungerete la pace.
Il presupposto della pace è la legalità – il decentramento di poteri – la condivisione del peso morale e giornaliero del duro lavoro – la nomina di persone incaricate che abbiano virtù – l’umiltà del leader e la sua umanità – il suo avere un limite e saperlo accettare.
Introdotto questo concetto si giunge alla cerimonia dei dieci comandamenti. Anche questa una restituzione. Perché anche D-O attraversa un percorso – programmato o accidentato questo non spetta a me qualificarlo – prima di condividere il suo sapere divino. Dalla promessa fatta ad Abramo, ribadita ad Isacco e Giacobbe, dopo 400 anni di schiavitù, dona al suo popolo i comandamenti, parte integrale ma al contempo ben distinta da tutte le altre norme.
Tu Liliana – con il percorso di schiavitù durante la Shoah – e dopo nel portare il fardello di memoria e testimonianza condivisa ci hai trasmesso l’imperativo del limite. Ci hai consegnato un nucleo di comandamenti che abbiamo ascoltato, forse non fino a fondo compreso, essendo intrinsecamente inaccessibile a chi da quel fuoco non è stato divorato – ma che assumiamo come impegno per rigore di verità, di odio verso ogni forma di corruzione e distorta dignità.
La memoria che ci hai comandato è opposta a quella sabatica della pienezza e bellezza della creazione e del riposo generato dal rispetto dell’agire divino. È quella della distruzione e devastazione, dell’affanno e del dubbio dell’uomo creato. Unicità della dissacrazione.
Incisi nella nostra memoria i nomi dei campi di concentramento (anche quelli italiani) e di sterminio, i nomi dei sei milioni di ebrei, di rom e sinti, testimoni di Geova, omosessuali, handicappati e oppositori politici e militari sterminati, i nomi dei sopravvissuti, i nomi dei giusti. Ciascuno con il suo vissuto fatto di studio, arti e professioni, di quei piccoli oggetti personali che si amano, ciascuno il suo sogno di vita rubata.
Sarebbe vietato uccidere. Vietato rubare. Vietato tradire. Vietato fare falsa testimonianza, vietato anche solo desiderare le cose altrui anche le più piccole.
Il fuoco di memoria che non si può spegnere e che diventa comandamento è inciso in noi attraverso le tue, vostre parole.
È nel rispetto di questa memoria e rincorrendo quella dimensione di pace che chi governa deve avvalersi del sapere che emerge dalla ricerca accademica anziché asservirla o disperderla, che un’intera Italia e le sue istituzioni anche accademiche devono comprendere e condannare quel male che era il fascismo, arginare ogni forma di nostalgico richiamo a ciò che neanche si conosce, dotarsi di percorsi di studio ed apprendimento che mettano la storia vera e vissuta al centro dell’analisi, affrontare in maniera non selettiva la difesa contro manifestazioni di antisemitismo sempre più legittimato da una rete senza regole. Ricordare che proprio la solitudine e l’isolamento generano quel superamento del limite di ogni decenza e ogni maldicenza. Comprendere che milioni di storie di deportazione e sterminio non sono solo storia ebraica, ma storia dell’umanità e dell’Italia. Comprendere al contempo che la storia ebraica non è solo storia di deportazione e sterminio ma anche storia di vita. Rinnovare quell’impegno ai piedi del monte Sinai nel ricevere e nel tramandare qui fondamenti di convivenza umana e l’imperativo ripetuto più volte: scegliere – quindi difendere – la vita.

Noemi Di Segni,
Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

(2 febbraio 2021)