La laudatio
“Storia e Memoria,
rapporto inestricabile”

Magnifico Rettore, Presidente della Regione, Senatrice Segre (carissima Liliana), Autorità tutte:
Sessant’anni orsono, nel 1961, alcuni eventi determinarono importanti mutamenti nella riflessione pubblica sulla persecuzione degli ebrei in Europa e sulla natura della “macchina dello sterminio” progettata dal regime hitleriano e messa in funzione con la generosa e volonterosa partecipazione di troppo numerosi alleati e carnefici. A quella data risale innanzitutto la cattura di Adolf Eichmann e l’istruzione del suo processo in Israele. Il processo Eichmann provocò profondi mutamenti sull’immagine pubblica del “male assoluto”. La filosofa Hanna Arendt seguì il dibattimento pubblicando una riflessione fondamentale (Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil – 1963, trad. La banalità del male, Milano 1964) che poneva l’accento sulla normalità degli esecutori di uno dei più immani massacri prodotti nella storia. Un tema che proiettava la Shoah sulla coscienza collettiva, anche grazie alla trasmissione televisiva del processo: immagini di un uomo normale che descriveva nei minimi dettagli le modalità di trasferimento di esseri umani ai campi della morte asserendo di aver solo adempiuto a ordini superiori. Un percorso che rovesciava le priorità della dinamica civile, assegnando una posizione di assoluto rilievo al coraggio della disobbedienza (Rony Brauman – Eyal Sivan, Adolf Eichmann, Torino 2003).
Sempre nel 1961 negli Stati Uniti veniva pubblicato il libro di Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews (prima traduzione italiana Torino 1995, per dire del ritardo italiano nell’avviare una riflessione fondata su dati storici). Il lavoro di Raul Hilberg ampliava le prospettive di ricerca presentando una corposa documentazione elaborata nelle oltre 1200 pagine dell’opera. Da queste prendevano corpo le linee del dibattito che per diversi decenni ha coinvolto gli storici contemporanei fra un’interpretazione “intenzionalista” e una “funzionalista”: la prima vede lo sterminio degli ebrei come un evento premeditato e compreso in origine nei programmi di Hitler. Secondo questa visione, esso sarebbe stato già ampiamente prospettato nel Mein Kampf, per concretizzarsi effettivamente una volta che le condizioni lo permisero, e sarebbe stato il frutto di una precisa volontà del Führer. I funzionalisti (fra i quali va ascritto lo stesso Hilberg, assieme al suo maggior epigono Christopher Browning) interpretavano la cosiddetta “soluzione finale” (esplicitata dalla Conferenza di Wansee nel gennaio 1942) come un’azione intervenuta solo alla fine di un lungo processo, lontano da ogni forma di determinismo e sostanzialmente ideata dai ranghi intermedi della gerarchia nazista.
Il tema che emergeva con forza sia dal processo a Eichmann, sia dalla lettura del lavoro di Hilberg, era quello dell’esercizio della responsabilità personale nell’ambito dello sterminio. Una riflessione che partiva da lontano (si pensi alle numerose dichiarazioni di non responsabilità espresse dai gerarchi nazisti al processo di Norimberga), e che tuttavia dal 1961 si andava rapidamente estendendo. Si avviarono proprio in quegli anni gli esperimenti di psicologia sociale condotti da Stanley Milgram (Obedience to Authority: An Experimental View, New York 1974) che costituirono terreno di riflessione per avviare nuovi percorsi di ricerca che comprendevano le riflessioni del sociologo Zygmunt Bauman, i lavori di Christopher Browning sulla partecipazione di non militari alla macchina dello sterminio e, infine, il grande e inconcluso lavoro dedicato ai “Giusti delle nazioni”. Il museo Yad Vashem di Gerusalemme, destinato a divenire luogo della memoria nazionale dello stato d’Israele, apriva nel 1962 questo capitolo incaricando una commissione di identificare coloro che – volontariamente e a rischio della propria vita – erano riusciti applicando la regola della disobbedienza a salvare anche solo una vita durante gli anni delle persecuzioni.
Ancora nel 1961 veniva pubblicato in Italia il pionieristico (e in seguito assai discusso) lavoro di Renzo De Felice, Gli ebrei italiani sotto il fascismo (Torino 1961), che aveva contribuito a fornire ai successivi studi l’impianto cronologico e documentale di base. Una breve introduzione collocava gli ebrei nella società italiana post-unitaria, e alcune note delineavano una presenza sì, ma superficiale e non “di massa” dell’antisemitismo e del razzismo nella Penisola. Seguiva un’analisi piuttosto ben documentata degli anni del fascismo che vedeva il suo epilogo nei tragici anni della persecuzione e della deportazione. Era il 1961, e quindi si trattava in senso stretto di storia “contemporanea”. Tuttavia nelle edizioni successive De Felice manteneva fermo l’impianto cronologico dell’opera, compiendo solamente alcuni aggiustamenti di carattere bibliografico e sottolineando con maggior forza la sua ipotesi originaria (oggi insostenibile) secondo cui la legislazione antisemitica italiana del 1938 sarebbe stata più il frutto delle strategie di alleanza con il Terzo Reich che non un prodotto originale della società italiana, fascista e non. «Non vi è dubbio – scriveva De Felice – che la decisione di Mussolini di introdurre anche in Italia l’antisemitismo di Stato fu determinata essenzialmente dalla convinzione che per rendere granitica l’alleanza italo-tedesca fosse necessario eliminare ogni stridente contrasto nella politica dei due regimi». Un’opera che da un lato offriva una prima importante ricostruzione – ben documentata – della vicenda delle persecuzioni antiebraiche nell’Italia fascista, che tuttavia eludeva completamente il nodo delle responsabilità individuali e collettive, al di là delle implicazioni ideologiche, che costituiva il senso della svolta che si andava delineando nel 1961 oltr’alpe.
Si tratta di un tema che ha progressivamente travalicato il dibattito strettamente storiografico, estendendosi a altre discipline che includono la giurisprudenza, la psicologia sociale, la filosofia, fino a determinare la produzione di opere d’ingegno originali e provocatorie. Fu solo a partire da quelle riflessioni che si rese possibile la realizzazione del lungo documentario dal titolo Shoah di Claude Lanzmann, che illustrava con la crudezza della testimonianza dal vivo le tragiche e inemendabili conseguenze di quell’atteggiamento di indifferenza così spesso indicato – a ragione – da Liliana Segre come nemico contro cui agire in ogni epoca e sotto ogni cielo. Fu anche il periodo nel quale si sviluppò il articolato dibattito storiografico in ambito tedesco, quell’Historikerstreit che attivò una dolorosa riflessione sulle responsabilità individuali e collettive che a ben vedere costituì una necessaria premessa al successivo processo di ricomposizione nazionale. E fu a partire da quelle dinamiche che si rese possibile la straordinaria riflessione prodotta da Zygmunt Bauman sintetizzata nel volume apparso in Italia con il titolo di Modernità e Olocausto (Bologna 1992). Bauman coglieva il significato più profondo sul senso dei problemi relativi alla responsabilità individuale nel partecipare a un atto ingiusto come l’uccisione di civili a fronte di un ordine superiore cui si può decidere di obiettare: “La novità più terribile rivelata dall’Olocausto e da ciò che si era appreso sui suoi esecutori – egli scriveva – non era costituita dalla probabilità che qualcosa di simile potesse essere fatto a noi, ma dall’idea che fossimo noi a poterlo fare” (Bauman, p.212). La riflessione di Bauman era pessimista e dirompente, direi quasi “pericolosa” per ogni sistema di potere, incluso quello democratico liberale occidentale. Egli identificava sostanzialmente tre pericoli ben presenti sia nella storia della Shoah, sia nelle nostre società contemporanee: “la produzione sociale della distanza, che annulla o indebolisce la pressione della responsabilità morale; la sostituzione della responsabilità tecnica a quella morale, che occulta efficacemente il significato morale dell’azione; e la tecnologia della segregazione e della separazione, che promuove l’indifferenza al destino dell’’altro’, destino che altrimenti sarebbe soggetto al giudizio morale e a una reazione moralmente motivata” (Bauman, p. 268). Uno degli antidoti possibili potrebbe essere la molteplicità delle fonti del potere, un tema su cui i totalitarismi sembravano avere le idee molto chiare.
Lo storico Christopher Browning (Uomini comuni, Torino 1995) dava concretezza documentale alle ipotesi di Bauman studiando da storico il comportamento dei membri del Polizei-Bataillon 101, perpetratori di stragi efferate durante l’estate 1942. Uomini che non appartenevano ad un reparto ideologizzato o addestrato; uomini comuni, proiettati dalla normale realtà urbana tedesca alle operazioni delle Einsatzgruppen in Polonia e Lituania, a uccidere inermi civili, donne, bambini ed anziani.
È questo il contesto intellettuale e civile che preparò il terreno alla stagione delle testimonianze. Donne e uomini che con coraggio trovarono la forza di parlare, spesso dopo decenni di silenzio, per raccontare la loro esperienza nella tragedia della Shoah. Donne come Goti Bauer e Liliana Segre hanno saputo vedere l’emergenza di un mondo che rischiava di dimenticare, hanno colto d’altra parte la disponibilità di nuove generazioni pronte finalmente ad ascoltare le loro storie, e hanno offerto con generosità instancabile la loro voce. Decenni di testimonianze hanno così rafforzato la riflessione storiografica fornendo elementi, particolari, sguardi, sensazioni che nessuna fredda documentazione archivistica sarebbe mai stata in grado di restituire. È questo – a ben vedere – il senso dell’inestricabile rapporto fra storia e memoria. Ed è prendendo le mosse da questo legame che si andrà sviluppando nel futuro la crescita di una società italiana ed europea consapevole e responsabile.

Gadi Luzzatto Voghera, direttore Fondazione CDEC

(2 febbraio 2021)