Periscopio – Sentenze e Memoria

Molto spesso, purtroppo, dobbiamo lamentarci, anche sulle colonne di questo giornale, della scarsa sensibilità dello Stato italiano, nelle sue varie articolazioni (legislativa, esecutiva e giudiziaria), di fronte alla questione dei risarcimenti dovuti alle vittime delle discriminazioni e delle violenze razziali fasciste. Un problema che, ovviamente, non è di soldi, ma di dignità, quel valore supremo che la Costituzione Repubblicana pone, all’articolo 3, come fondamento ineliminabile della civile convivenza democratica. Che Stato è quello che non riconosce la dignità dei suoi cittadini (anzi, direi io, di chiunque, anche se non cittadino, si trovi a vivere sul suo territorio)?
Quando c’è da segnalare qualcosa di positivo, perciò, mi sembra doveroso farlo.
Con due recenti sentenze, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha precisato l’ambito di applicazione della legge n. 541 del 1971, che ha attribuito alcuni benefici a favore di cittadini italiani di origine ebraica, che siano stati dichiarati ‘perseguitati razziali’ dalla Commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Con la prima sentenza (n. 8312 del 24 dicembre 2020, Presidente L. Maruotti, estensore D. Di Carlo), il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittimo il provvedimento della Commissione, che aveva escluso che si potesse qualificare come perseguitata razziale una bambina nata in una stalla nel 1944, da genitori ebrei in fuga, che avevano trovato un rifugio nascosto presso alcuni contadini, in una zona allora occupata dai nazifascisti.
La Commissione aveva motivato la sua decisione affermando che gli atti persecutori erano stati commessi solo in danno dei genitori, e non anche della neonata, la quale – ad avviso della Commissione stessa – non poteva ‘percepire’ la portata persecutoria degli atti che avevano indotto i genitori a nascondersi ed a rifugiarsi nelle campagne.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittima la decisione negativa della Commissione, sulla base di un’articolata motivazione, con cui ha affermato che:
a) la legge n. 541 del 1971 è stata emanata perché lo Stato italiano ha riconosciuto di essere venuto meno “alla prima delle ragioni che giustificano l’esistenza dello Stato, che è quella di essere il guardiano dei diritti fondamentali dei propri consociati, non quella di essere l’artefice di atti persecutori che lasciano tracce indelebili nei sopravvissuti”;
b) la qualifica di perseguitata razziale spetta anche alla neonata, sia perché durante il periodo di permanenza nella stalla si era ammalata di tifo, sia perché “secondo logica si deve ritenere che nelle successive narrazioni familiari si siano inevitabilmente ricordate le circostanze di quel periodo che non solo vanno ricordate affinché mai si ripetano, ma che hanno anche inevitabilmente lasciato tracce indelebili, con la rinnovazione delle reazioni emotive interiori, che hanno continuato a sentire l’ingiustizia di quanto accaduto, se non il timore che analoghe circostanze si sarebbero potute ripetere (pur se la forza della Costituzione repubblicana e, ancor prima, l’affermazione del sistema democratico instaurato con l’elezione della Assemblea Costituente hanno successivamente attenuato un tale timore)”.
Con la successiva sentenza (n. 811 del 27 gennaio 2021), il Consiglio di Stato – con la stessa composizione del collegio – ha ritenuto illegittimo un altro provvedimento della Commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che aveva escluso che si potesse qualificare come perseguitata razziale una fioraia – munita di specifica licenza di cui era cointestataria con il marito – la quale nel 1943 non aveva più svolto la sua attività lavorativa e si era rifugiata dai parenti del marito di religione non ebraica, nel frattempo partito per la guerra.
La Commissione aveva motivato la sua decisione, affermando che l’attività di fioraia non era stata più svolta per una ‘libera scelta’ di vivere con i parenti del marito, non risultando concreti atti che le avessero inibito l’attività lavorativa.
Anche in questo caso il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittima la decisione negativa della commissione, poiché la mancata prosecuzione dell’attività di fioraia si doveva risultare necessitata, dal momento che una circolare del Ministero delle corporazioni (n. 23774 del 1938) aveva negato che si potesse rinnovare il rilascio delle licenze ai cittadini di “razza ebraica”.
Dopo aver affermato che la nozione di ‘violenza’ va intesa anche come ‘coartazione’ della volontà, il Consiglio di Stato ha osservato che tale circolare ha inevitabilmente comportato la cessazione dell’attività lavorativa, mentre la partenza del coniuge per il fronte si sarebbe dovuta considerare non quale ragione di un abbandono volontario del chiosco, ma come causa che aveva solo aggravato la condizione di miseria e di abbandono sofferta dalla donna, tagliata fuori, in quanto ebrea, dalla possibilità di svolgere un lavoro di cui aveva ancora più bisogno.
Il fatto che la seconda delle due sentenze sia stata pronunciata proprio il Giorno della Memoria conferisce ad essa, evidentemente, un significato particolare. Questa è l’Italia che ci piace. L’Italia della Memoria, della Dignità, della Giustizia. Onore al Giudice Di Carlo, al Presidente Maruotti, al Consiglio di Stato, all’Italia che non dimentica e che, quando può, cerca di offrire una sia pur minima riparazione simbolica a ferite che restano comunque, per sempre, irrimarginabili.

Francesco Lucrezi