Sofferenza altrui
Repetita iuvant, dicevano i latini. Ecco perché mi sento di respingere con forza questo nuovo filone polemico che manifesta sempre più insofferenza nei confronti delle testimonianze degli ultimi reduci e delle ultime reduci della Shoah. Mi è capitato di sentirne anche in occasione delle testimonianze di Liliana Segre nel corso del Giorno della Memoria appena passato. Il rimprovero è di dire sempre le stesse cose, come se il dovere della memoria debba essere una sorta di happening televisivo in cui la novità serve per “acchiappare” l’attenzione di spettatrici e spettatori. Io credo, piuttosto, che simili polemiche mostrino la necessità di un’ulteriore ripetizione. Fra i tanti ricordi che Segre ci ha trasmesso in questi 30 anni di testimonianza c’è quello degli internati Rom ad Auschwitz, dapprima guardati da lei con invidia e anche rancore per gli apparenti privilegi di cui godevano, e poi spariti d’un tratto una mattina. Il destino che hanno subito è assai noto. Ai miei occhi questa testimonianza è un esempio del dettame biblico di ricordarsi di essere stati stranieri in terra straniera, che ci invita al dovere dell’empatia, della solidarietà e della condivisione di chi ha sofferto e soffre tutt’ora. È bello che nel ricordo di una tragedia personale di queste immani dimensioni ci sia spazio anche per il ricordo della sofferenza altrui. C’è ancora molta ignoranza riguardo la costruzione della teoria razziale nazista, soprattutto nel decifrarne la logica e la coerenza interna, per cui tutti i tasselli del puzzle si tengono assieme. Non si può mettere da una parte l’antisemitismo, vero centro e nucleo che alimenta l’intero edificio, e dall’altra le politiche discriminatorie verso Rom e Sinti. Non si può contrapporre la Shoah al Samudaripen: le due cose si tengono insieme, se tolgo l’una tolgo anche l’altra. È ingiusto, io credo, non ricordarlo a chi, persino da ministro in carica, ha alimentato l’odio verso i Rom, arrivando persino a dire in televisione la gravissima frase «Beh, i Rom italiani purtroppo ce li dobbiamo tenere». Ancor più spiacevole è se fra i suoi interlocutori ci sono esponenti diplomatici di rilievo che occupano un ruolo istituzionale. Sappiamo bene che l’idea di un territorio ebraico non c’entra nulla con la Shoah e con nessuna delle innumerevoli persecuzioni subite, ma è altrettanto vero che l’Israele moderno nasce dalle ceneri di Auschwitz, difficile distinguere a chi appartenessero.
Davide Assael