Machshevet Israel
Il fiume di fuoco

Nelle fonti del giudaismo rabbinico si incontra spesso il nehar dinur (o meglio, di-nur) o ‘fiume di fuoco’. Ne parla per la prima volta Daniele, al capitolo sette, che descrive la grande visione che quel giovane giudeo ebbe in sogno: vide quattro bestie potenti e terribili, che nel linguaggio simbolico tipico dell’apocalittica sono simboli di regni e imperi (Babilonia, Media, Grecia e i regni ellenistici), che lottano tra loro ma devono infine sottoporsi al giudizio divino. Quest’ultimo è rappresentato dal Trono, simbolo di Colui che vi è assiso per giudicare quei regni e rendere giustizia a chi essi tiranneggiano, ciò il piccolo regno di Giudea (di cui Daniele è il rappresentante in esilio). In Dn 7,10 leggiamo: “Un fiume di fuoco (nehar di-nur) scorreva e usciva da Lui”. Si tratta di un gioco di parole e di significati: si ripetono le consonanti nun-resh, che oltre a indicare un ruscello (nahar) e il fuoco (nur), rimandano alla luce (ner) e alla memoria (menahar). Si tratta anche di una metafora che colpì l’immaginazione dei maestri di Israele, proprio come come noi siamo colpiti oggi dal vedere i fiumi di lava incandescente che escono dai vulcani attivi. Per questo quel fiume di fuoco lo si ritrova nel Talmud, nei midrashim e nei commenti qabbalistici come lo Zohar più del Giordano e del mitico Sambatyion.
Nel trattato Chaghigà 13b, là dove i maestri ragionano della merkavà o opera del carro (Ezechiele 1), essi citano Dn 7,10 e si chiedono anche da dove sgorghi questo incredibile fiume, e la riposta è: dal sudore delle creature viventi (chaiot), qui intese come una schiera celeste. Il perché queste creature ‘sudino’ è narrato nel Bereshit Rabbà (78), in un dialogo non meno fantasioso tra l’imperatore Adriano e rabbi Yehoshua ben Chananià, che gli spiega come le acque infuocate di quel fiume sgorghino dal sudore delle chaiot che trasportano il Trono divino. Ma nel Talmud si indaga non sono da dove venga, ma anche dove vada questa corrente divampante e divorante. Secondo Rav, la cui opinione è espressa da Zutrà bar Tovia (un amorà babilonese), il nehar dinur “sfocia sulla testa dei malvagi nel gehinnam” ossia all’inferno. Secondo un’altra opinione, sfocerebbe sulle 974 generazioni che non furono degne di essere create… Con questo linguaggio colorito il fiume di fuoco viene riportato alla sua funzione originaria, quella di essere simbolo della giustizia divina (non va scordato che in questi testi l’inferno ebraico non dura più di dodici mesi, si direbbe un mero strumento pedagogico). Non è un caso che il fiume compaia nel commento midrashico a Bereshit/Gn 32-32, nel contesto dell’incontro tra Ja‘akob/Giacobbe e Ishav/Esaù, il cui confronto ‘continua’ per così dire tra rabbi Yehoshua e Adriano: l’istanza di giustizia sorge sempre da un Israele oppresso, che subisce le angherie di un impero oppressore: lo scontro militare, politico e religioso tra i due genera e alimenta le preoccupazioni storiche del popolo ebraico in esilio, il quale trova spiegazione (ma soprattutto consolazione) ai propri guai e alla propria sofferenza grazie a siffatte storie e ai loro simboli apocalittici, che riaffiorano anche nella più sobria letteratura rabbinica.
Nello Zohar, che è un sublime prodotto immaginifico della mistica del tardo medioevo ebraico, ritroviamo una nuova elaborazione delle visioni celesti di Ezechiele e Daniele, ma qui il fiume di fuoco è ormai spiritualizzato – destoricizzato, ossia depoliticizzato – e rimanda al fiume di Bereshit/Gn 2,10, che irriga il gan Eden: come tale quel fuoco non è più lo strumento di una giustizia divina punitiva, ma è sublimato nel mezzo con cui Israele ottiene una purificazione interiore “quando le anime ebraiche ascendono nei regni superni” (tema tipico della mistica ebraica). In altre parole la qabbalà si impadronisce del linguaggio della profezia e dell’apocalittica e lo trasforma in senso spirituale e morale. Il fiume di fuoco prorompe dal Trono stesso, che è a sua volta di fuoco (Dn 7,9) – ed è per questo forse che le chaiot sudano nel portarlo, non perché sia pesante! – ma in questo fiume le anime non bruciano, anzi si immergono come in un miqwè, in un bagno rituale, per rimuovere le imperfezioni e, appunto, purificarsi. Ciò è paragonato dai qabbalisti a quel che succede alla salamandra, l’animale anfibio che, secondo antiche credenze, nasce proprio dal fuoco e ripulisce la sua pelle attraverso il fuoco: dunque l’anima del giusto, che vuole tornare a esperire la purezza del gan Eden, deve diventare… come la salamandra (che, essendo anfibio, riesce a vivere in due mondi: quello di lassù e quello di quaggiù, contemporaneamente). Tutta questa elaborazione è messa dall’autore dello Zohar, il rabbino castigliano Moshe de Leon, sulle labbra di Rabbi Abba, uno dei nove discepoli di Rabbi Shim‘on bar Yochai, che ‘apre’ cioè interpreta la corona – ossia il premio – che attende i giusti nel gan Eden (cfr. Zohar II, 209-211). Ecco come il fascinoso ossimoro del nehar dinur o fiume di fuoco, degno della Commedia dantesca, ha illuminato per secoli il senso del conflitto teologico-politico tra ebrei e babilonesi prima, tra ebrei e romani più tardi, evolvendo infine in un concetto mistico-spirituale.

Massimo Giuliani, Università di Trento