Contro il qualunquismo
della false equivalenze

Il fascismo non è mai “un di più” di politica, essendone semmai la sua negazione. Se la politica – in democrazia – è pluralismo di opinioni, di idee ma anche di interessi, si definisce «fascista» chi ne vuole cancellare la sua concreta manifestazione. Non a caso, negli anni del regime, non era infrequente imbattersi, nei locali pubblici, in scritte del tipo: «qui non si parla di politica» (essendo già assolta e risolta all’interno dei gruppi di potere). Da ciò deriva il fatto che quanto qualifichiamo con il nome di «fascismo» è assenza di conflitto, non il suo eccesso. Infatti, si presenta a tutti come soluzione definitiva ai problemi dell’ordine sociale, quando di essi ne è invece un moltiplicatore. Anche per questo, a cose avvenute, risulta essere una miscela di ciarlatanerie e violenza, dovendo disintegrare non solo ogni residua forma di opposizione ma anche la grande varietà di esperienze umane che invece contraddistingue ogni democrazia sociale. Lottare contro il fascismo è quindi adoperarsi contro l’omologazione e l’uniformazione (di pensieri, di condotte, di azioni, di atteggiamenti, di identità). Oggi il conformismo porta alla supina accettazione della barbarie. Essere democratici implica l’opporsi apertamente a questa deriva. Se i tanti (comunque i troppi) negano, o riducono, il fenomeno della reviviscenza del fascismo a “folclore”, allora c’è di che essere effettivamente preoccupati. Quando certe testate militanti della destra “illiberale” minimizzano le manifestazioni revansciste, è del tutto ragionevole pensare che qualcosa di inquietante stia invece avvenendo. Infatti, abitualmente l’agire fascista si mimetizza e si comporta come un camaleonte: getta il sasso mentre nasconde la mano; cambia colore a seconda delle circostanze. Gli tengono bordone i benpensanti delle cosiddette “maggioranze silenziose”, sempre ansiosi di strepitare senza per questo assumersi alcuna responsabilità. Essere democratici e antifascisti vuole dire denunciare il conformismo e il falso modo di pensare “bene” di questa errata equidistanza. Non esiste nessuna lotta al razzismo che possa essere credibile se è intesa come selettiva, ossia solo nell’interesse di una qualche parte; la lotta al razzismo rimanda all’universalismo dei diritti: o sono per tutti oppure rischiano di essere dei meri privilegi per coloro che ne godono in chiave esclusiva (intesa come tale poiché esclude del tutto dai suoi benefici gli altri). Rifiutare il razzismo non vuole dire essere “buonisti” (scadente neologismo coniato da certa destra intollerante) e neanche indifferenti agli effetti sociali, economici e culturali delle migrazioni. Semmai rimanda alla necessità di capire come noi stessi costiutuiamo il risultato dei cambiamenti che la storia da sempre porta con sé. Per guidarne gli indirizzi e, soprattutto, gli effetti. Il cittadino consapevole è colui che prende parte a questo percorso, senza piegarsi ad una malinconia impotenza (“succede, non posso farci nulla”) o ad una aggressività tanto vuota quanto rancorosa (“al di fuori del mio gruppo, tutto mi minaccia”). Dire «fascista», d’altro canto, non basta più: l’ideologia della destra radicale è pienamente ibridata con il nazionalsocialismo. In tutto e per tutto. Almeno dalla fine degli anni Trenta del secolo trascorso in poi. Esalta infatti il progetto razzista che fu di Hitler, auspicando che torni la “purezza razziale” che connotò la guerra assassina e criminale, ovvero di sterminio, delle potenze dell’Asse. La parola «fascismo» ha quindi perso quella natura denotativa e connotativa che un tempo invece ancora rivestiva. Ad essa molti dei nostro contemporanei, senz’altro troppi, contrappongono la logorata cantilena per cui «il fascismo ha fatto anche buone cose». Come un osceno ritornello, ripetuto nel vuoto, per certuni è addirittura sinonimo di accettabilità. Una specie di riabilitazione postuma. Ma il nucleo del fascismo eterno, quindi di sempre, riposa tranquillamente in quel razzismo quotidiano che sotto la patina perbenista del “diritto alla differenza” nasconde il rifiuto dell’eguaglianza. La lotta etnica (“i tuoi nemici sono quelli che appartengono ad un’altra razza”) da sempre è uno strumento per anestetizzare qualsiasi lotta sociale. Si parla quindi di fascismo, non si parla invece con i neofascisti: qualsiasi vuota interlocuzione, oltre a non portare a nulla, di fatto ripiegando contraddittoriamente su di sé, rischia di trasformarsi in una implicita legittimazione della controparte. Non importa quanto involontaria. Se due soggetti contrapposti si confrontano, allora entrambi assumono pari valore agli occhi del grande pubblico. Tanto più in un’epoca dove a determinare cosa sia importante e quanto, invece, poco o nulla conti, sono i mezzi di comunicazione. Mettereste mai a confronto un neonazista con uno scampato dalla deportazione, quasi che, nel qual caso, esistessero due “versioni” confrontabili ed equiparabili, con una pari dignità di ascolto? Con i razzisti e i fascisti non ci si raffronta, non essendoci un terreno minimo di comunicazione, ossia le stesse regole democratiche (che loro usano a proprio beneficio, per poi disarticolare la democrazia medesima). Ai fascisti, quindi, ci si contrappone, sempre e comunque con gli strumenti della partecipazione democratica. Il migliore antidoto a qualsiasi deriva, d’altro canto, è la partecipazione. Il silenzio qualunquista è sempre un sintomo della deriva fascistoide. La democrazia non è assentire a priori; semmai, è prendere parte. Per la libertà di tutti. Paradossalmente, anche del fascista, che non lo sa né lo vuole sapere. Poiché non conosce il senso della libertà, semmai temendola. Settant’anni e più di storia repubblicana e costituzionale stanno lì a dimostrarlo, se mai ce ne fosse ancora bisogno. Non debbono preoccupare le manifestazioni più eclatanti (il “freak show” in camicia nera o bruna) ma il fascismo quotidiano, quello del doppiopetto; del “pensare bene”; delle false equidistanze; del perbenismo; del «sì, ma…»; del «si stava meglio quando si stava peggio» e così via. Una sorta di catalogo degli orrori del ragionare per luoghi comuni. Essere democratici vuole dire contrastare questa pericolosissima deriva del senso comune. Poiché qualsiasi dittatura si basa non solo sulla peggiore eclatanza, propria dello squadrismo, della violenza, del crimine legalizzato, ma anche e soprattutto sull’accettazione passiva dell’atteggiamento acritico – tale poiché dominante – allo spirito del tempi. L’antifascista sottrae ai neofascisti la palma di «anticonformisti» (così come si presentano, davanti al grande pubblico, quando vogliono attaccare la democrazia) e rilancia i principi della Costituzione come vero orizzonte di senso condiviso. La crisi che stiamo vivendo, d’altro canto, non deriva dalla forza in sé del neofascismo ma piuttosto dalla intrinseca debolezza della democrazia sociale, mai pienamente realizzata nel nostro Paese, in Europa e nel mondo globalizzato. Oggi è la democrazia sociale a risultare “sovversiva” rispetto al dominio qualunquista, dove «nella notte tutte le vacche sono scure», come avrebbe detto il filosofo. Il gioco delle facili equivalenze è la morte del diritto alla differenza e al pluralismo. Bisogna pertanto lottare contro il falso presupposto dell’equiparabilità, fatto altrimenti passare come criterio perbenista e di senso comune. La premessa per contrastare la reviviscenza fascista, è infatti il scindere il richiamo alla lotta contro di essa da quell’atteggiamento di senso comune che parifica fenomeni storici distinti; soprattutto, usa il giudizio politico abborracciato contro il passato per attenuare o addirittura negare le colpe del fascismo, L’accostamento tra fascismo e comunismo non ha a che fare con un sereno giudizio storico ma serve a mera giustificazione del primo. Riprende, anche in questo caso non importa quanto inconsapevolmente, la falsa teoria del fascismo come risposta al comunismo Quindi, non è mai autentico e sincero rifiuto della dittatura stalinista, come invece viene da certuni presentato. Semmai costituisce la copertura e lo sdoganamento dei crimini del regime mussoliniano, e dei suoi epigoni in età repubblicana, attraverso la riproposizione, al pubblico, di una visione della politica come di un campo degli orrori, dove tutte le posizioni si equivarrebbero, richiedendo quindi che sia un qualcuno di onnisciente (il «duce») ad incaricarsi, al posto della collettività, di neutralizzarne le ricadute negative. Non si può né si deve cadere in questa trappola, che finge di volere tutelare il «popolo» quando, invece, gli sottrae qualsiasi facoltà critica, mettendo sullo stesso piano storie diverse per poi sentenziare che solo il “governo di un capo” può trovare le giuste risposte ai dilemmi del presente. È quindi necessario rinnovare radicalmente l’arsenale delle risposte: il rimandare alla sola repressione penale rischia infatti di rinforzare i neofascisti, capaci di rivestire gli abiti dei martiri delle «persecuzioni giudiziarie». La lotta è comunque politica, non potendosi alimentare della tentazione di scorciatoie e, ancora meno, di deleghe di sorta. Non basta la buona volontà, che pure non deve mai difettare, ma occorre richiamarsi all’impegno di costruire una nuova coalizione di soggetti sociali. Il vero terreno di confronto è quello che lega il lavoro e la vita sociale – quindi il mutamento radicale che stanno conoscendo le nostre società – al loro rapporto con i diritti sociali (eguaglianza) e ai diritti civili (differenza). È quanto di più difficile si possa cercare di fare. Ma, per l’appunto, non sussistono scorciatoie. Impervio è il cammino, essendo tuttavia l’unico possibile. Non si affronta, pertanto, un rischio di ampia portata, che può minare la continuità stessa della democrazia, con il rimando alle iperboli compiaciute, alle facili suggestioni, a vuoti richiami alle parole d’ordine. Le classi di età più giovani necessitano di doversi fare, anche e soprattutto da sé, una coscienza democratica. La quale non è solo il risultato di una trasmissione di generazione in generazione ma il prodotto della partecipazione attiva alla politica. La mancanza di quest’ultima rende senescenti e vuote le nostre società, consegnandole infine agli avventurieri di ogni genere e risma. Oggi, la vera differenza, è tra chi invita alla delega senza verifica e chi chiama alla vigilanza responsabile attraverso la responsabilità e la reciprocità. Non esiste comunque una via comoda alla democrazia sociale e costituzionale. Gli stessi padri costituenti pensarono all’una e all’altra non come a dei beni immutabili da preservare bensì a due obiettivi da raggiungere e realizzare di epoca in epoca, di storia in storia, di momento in momento. I diritti non sono una concessione; semmai costituiscono una conquista. Implicano quindi l’impegno di tutte le intelligenze, la lotta di ogni democratico, la partecipazione di ciascuno ad uno sforzo che si opponga costantemente all’indifferenza. Nessuno può disgiungere se stesso, quindi le sue idee, da un tale orizzonte plurale. Si tratta della lotta per la libertà e l’uguaglianza, in quanto due capi dello stesso discorso. La libertà, infatti, è plurale altrimenti non potrebbe esistere. Ed il pluralismo si può dare solo ed esclusivamente nell’eguaglianza delle opportunità. Sì, c’è ancora molto da fare. Non è che un inizio.

Claudio Vercelli