Le mezuzoth di Primo Levi

La formazione scientifica di Levi, col suo linguaggio chiaro, la sua prosa “marmorea”, – lontana “dal linguaggio del cuore” – la tensione morale dei suoi scritti hanno offerto una combinazione unica di elementi psicologici, stilistici e formali per dare corpo a una delle più significative opere di testimonianza che sia mai stata scritta sull’esperienza dei Lager.
Durante la sua vita Levi fu apprezzato per il suo moderato ottimismo, la tendenza a voler comprendere e a non accusare. Dopo la morte per suicidio ha prevalso una visione opposta. Quanto prima era stato denegato sull’onda di una lettura che privilegiava gli aspetti positivi e vitali del messaggio di Levi, l’ottimismo misurato che trapelava negli articoli e nelle interviste, dopo la morte apparve in una luce diversa. L’immagine di un Levi “ottimista” lasciò il posto a un visione più tragica che le pagine dell’ultima sua opera contribuirono a rafforzare.
In realtà bastava saper leggere tra le righe e negli interstizi tra un libro e l’altro, nelle poesie e nelle aperture e chiusure delle sue opere di testimonianza e di invenzione, per comprendere le che le cose fossero più complesse. Il confronto tra la sua prosa e la poesia può aiutare ad approfondire. I testi poetici di Levi sono preludi che commentano, chiusure che affidano ai versi ciò che la prosa non può contenere, una poetica del silenzio che si ferma di fronte all’indicibile. Pudore e reticenza ne sono un elemento costitutivo. La produzione poetica di Levi non era un abbozzo, o come talora si è creduto un accenno alla prosa. Era il contro canto straziante alla sua prosa. Levi non assolve. Ma non lancia anatemi, né accuse. Quando il suo grido sta per farsi stridulo, lo consegna alla poesia. I richiami poetici suoi o di altri, agli inizi e alla fine delle sue opere di prosa, appaiono retrospettivamente come mezuzoth collocate sugli stipiti delle porte di una grande casa.

David Meghnagi, psicoanalista