“I tribunali non sono i luoghi
dove decidere la verità storica”

Il processo per diffamazione contro gli storici Barbara Engelking e Jan Grabowski “non doveva neanche essere fatto perché non c’è reato”. Lo sottolinea a Pagine Ebraiche il giornalista polacco Konstanty Gebert, rappresentante della comunità ebraica locale, parlando del procedimento per diffamazione a carico dei due studiosi, terminato con una sentenza che lascia aperti molti interrogativi. La Corte ha chiesto a Engelking e Grabowski di scusarsi con la donna che li aveva querelati per diffamazione per aver citato lo zio, in un caso di omonimia, nel loro saggio come responsabile di una delazione che portò all’assassinio di un gruppo di ebrei durante la Shoah. Il delatore citato in Notte senza fine: Il destino degli ebrei in alcune contee della Polonia occupata, non è dunque lo zio della donna, ma un omonimo, che è esistito e a cui fanno riferimento le testimonianze raccolte dai due storici. Un errore dunque, risolvibile fuori dalle aule del tribunale sottolinea Gebert. “Bastava che la donna segnalasse ai due storici in una lettera il caso di omonimia e loro avrebbero certamente chiesto scusa e corretto l’errore. Ma è evidente che dietro a questo processo c’è dell’altro”.

Che cosa?
Questo processo è chiaramente parte di una campagna del governo di revisione della verità storica. Il caso non sarebbe mai dovuto arrivare in un’aula di Tribunale. Per la semplice ragione che non c’è delitto. L’accusa di diffamazione ha merito soltanto se riguarda informazioni false e diffuse con l’intenzione di danneggiare una reputazione. Qui non si tratta di informazioni false. Engelking, autrice del capitolo, semplicemente cita opinioni di testimoni in merito a un sindaco di un piccolo villaggio della Polonia orientale. E il processo non ha niente a che vedere con la difesa della reputazione di quest’uomo. Ma è un attacco alla presentazione della verità storica sulla situazione degli ebrei nella Polonia occupata. Perché questo è il tema della monografia di 1600 pagine dalla quale è stato estratto il breve paragrafo al centro del caso di diffamazione. La Corte, secondo me, avrebbe dovuto rifiutare di considerare questa causa perché non c’è fondamento legale. Il problema è che questo non è l’unico caso.

Intende l’interrogatorio della giornalista Katarzyna Markusk?
Esatto. La Markusk ha scritto un saggio nel quale dice che è evidente che c’è stata una partecipazione polacca alla Shoah. È stata interrogata per questo dalla polizia. Qualcuno l’ha denunciata per avere insultato la nazione polacca. Si tratta di un’interrogatorio della polizia fatto prima ancora di un’apertura formale di un’inchiesta. Che non si sa se sarà mai aperta. Ma l’idea che esprimere un parere e soprattutto un parere storicamente valido significhi insultare la nazione polacca, beh qui cadiamo nell’assurdo, in un concetto pericoloso e sinistro. Per questo oggi sedici personalità ebraiche – dal rabbino capo di Polonia, fino al sottoscritto – hanno pubblicato una lettera aperta dicendo che se dovesse esserci un’inchiesta a carico di questa giornalista, chiediamo di essere inclusi. Vedremo quale sarà la reazione delle autorità.

Dunque anche il mondo ebraico ha fatto sentire la sua voce.
Certamente. La vicenda della verità storica è molto importante per tutti. Lo è anche alla luce della nomina del nuovo direttore regionale dell’Istituto di memoria storica di Breslavia (un’istituzione statale molto importante, con poteri significativi, che deve studiare la storia della Polonia sotto occupazione nazista e sotto il regime comunista). Il nuovo capo è un neofascista, un militante dell’organizzazione Falange nazional-radicale che partecipava alle manifestazioni che inneggiavano alla Polonia soltanto bianca e che faceva il saluto romano. Se lo Stato lascia la gestione della memoria nazionale a personaggi di questo genere, allora è ancor più importante difendere le voci di giornalisti e storici che fanno ricerca libera.

Daniel Reichel