Polonia, processo alla Storia
Un verdetto con molte ombre

Alla sbarra a Varsavia in queste ore c’era la libertà di ricerca storica in Polonia. In particolare quella legata al periodo della Shoah. E il verdetto, per il momento, non ha chiarito chi sono vincitori e vinti, dimostrando soprattutto che i tribunali non sono luoghi adatti a stabilire verità storiche. Il caso riguarda gli storici Barbara Engelking e Jan Grabowski e il loro libro Notte senza fine. Il destino degli ebrei in alcune contee della Polonia occupata. I due studiosi sono stati citati in giudizio per diffamazione dalla nipote di Edward Malinowski, menzionato nel libro come implicato in un crimine avvenuto durante la Shoah. La giudice Ewa Jonczyk ha stabilito che gli studiosi devono porgere delle scuse scritte alla ricorrente per “aver fornito informazioni inesatte” sul fatto che il defunto zio, Malinowski, avesse derubato una donna ebrea – Maria Wiltgren – durante la guerra e avesse contribuito alla morte di un gruppo di ebrei nascosti in una foresta a Malinowo nel 1943, nella Polonia occupata. La giudice ha posto l’accento sulle discrepanze nella testimonianza, resa in tempi diversi, dalla Wiltgren. Una testimonianza citata in un breve paragrafo di un saggio di 1600 pagine.
I due storici hanno dichiarato che ricorreranno in appello. In attesa della motivazione della sentenza, sui siti dell’ultradestra polacca si parla già di una vittoria “per l’orgoglio nazionale polacco”.
“Ognuno di noi ha il diritto di chiedere un risarcimento giudiziario o di altro tipo per la perdita dell’onore. Va da sé, in ogni democrazia è diritto di ogni essere umano. Ma qui ovviamente non è questo il punto, – ha spiegato Grabowski in un’intervista a Gazeta Wyborcza precedente la sentenza – perché questo processo è stato organizzato, innescato, animato, finanziato e pubblicizzato da un’organizzazione che è direttamente sovvenzionata dallo stato, cioè la Lega polacca contro la diffamazione”. L’obiettivo di questo gruppo, spiegava Grabowski, è silenziare la ricerca storica sulle responsabilità dei singoli polacchi che collaborarono con i nazisti durante l’occupazione del paese. La Lega contro la diffamazione sosteneva che gli autori hanno calunniato un uomo innocente e privato la nipote dei suoi diritti, incluso il diritto all’orgoglio e all’identità nazionale. E volevano sostanzialmente delegittimare tutto il lavoro di Engelking e Grabowski.
Yad Vashem ha definito il processo come “un grave attacco alla ricerca libera e aperta”, definendo “inaccettabile” il tentativo di porre limiti allo studio accademico “attraverso la pressione giudiziaria o politica”. Il processo, come segnalava su queste pagine la storica Anna Foa, si innesta in un tentativo più generale delle autorità polacche di intervenire sulla narrazione della storia nazionale. In particolare si inserisce nel solco della norma approvata nel 2018 da Varsavia, su iniziativa del partito ultraconservatore Diritto e Giustizia, che vietava di accusare la Polonia di complicità con i crimini nazisti. Una norma contestata a livello internazionale, sostenuta invece da movimenti come la Lega polacca contro la diffamazione. “Non dobbiamo essere ingenui. Questo processo contro di me ed Engelking è la prosecuzione della Legge polacca sulla Shoah”, ha spiegato Grabowski a Gazeta Wyborcza. Citando il Primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, lo storico ha ricordato come il capo del governo polacco ha sì modificato e depenalizzato la legge in questione, ma allo stesso tempo ha chiarito di non voler retrocedere. Infatti, avrebbe annunciato pubblicamente di voler appoggiarsi a organizzazioni non governative per portare a processo chi “calunnia la nazione. […] Questo è esattamente lo scenario che potete vedere ora. Usando le ong sponsorizzate dal governo, si dà un colpo ai ricercatori”. “In un mondo normale questo caso sarebbe stato archiviato molto tempo fa”, ha aggiunto Grabowski. “Ma la Polonia non può più essere considerata una democrazia normale”, ha dichiarato lo storico, accusando il partito di governo Diritto e Giustizia di iniziare una “riconquista della storia” concentrandosi sulle sofferenze della Polonia durante la guerra e sminuendo la sua complicità nei crimini nazisti contro gli ebrei.
Come evidenzia il New York Times, la Polonia non ha mai creato un governo collaborazionista “ed è orgogliosa del suo primato di dura resistenza ai nazisti. Questo orgoglio, tuttavia, ha assunto un carattere aggressivo e intollerante da quando il partito Diritto e Giustizia ha preso il potere nel 2015. Ha cercato di criminalizzare qualsiasi messa in discussione dell’eroismo polacco in tempo di guerra e ha versato denaro in gruppi di ricerca e progetti museali che presentano la Polonia come la vittima perpetua e del tutto incolpevole dell’Europa”. Un atteggiamento che preoccupa una parte della società, con la comunità ebraica che ha fatto sentire la propria voce. “Di recente, sono stati fatti tentativi per reprimere storici e giornalisti che cercano di presentare in modo imparziale il destino degli ebrei polacchi sotto l’occupazione tedesca. Il processo contro i professori Barbara Engelking e Jan Grabowski e l’audizione della giornalista Katarzyna Markusz sono solo gli ultimi esempi di questo. – si legge in una lettera firmata tra gli altri dal rabbino capo di Polonia Michael Schudrich – L’aula di tribunale non è un luogo in cui viene determinata la verità storica; condanniamo tali tentativi ed esprimiamo la nostra solidarietà alle persone contro cui sono diretti”.

dr