“Io non vengo da Auschwitz”

La repressione, persecuzione ed emarginazione di generazioni di compositori non allineati al pensiero unico del regime sovietico fu di tale portata demografica ed estensione cronologica – dall’apertura del primo Gulag nel 1917 sulle Isole Solovki a oltre un decennio dopo la morte di Stalin – da assumere il profilo di una ecatombe artistica e umanitaria senza precedenti; nazifascismo e marxismo-leninismo individuarono nell’intelligentsia musicale – libera e rivoluzionaria per eccellenza – il vulnus da estirpare e il nemico da combattere ed eliminare fisicamente e intellettualmente.
Il direttore d’orchestra, compositore e virtuoso della chitarra russa a 7 corde Matvei Stepanovich Pavlov-Azancheev nacque a Batumi (Georgia) nel marzo 1888 e studiò presso il Conservatorio di Mosca; dal 1924 al 1933 diresse un’orchestra a Vladikavkaz, nel 1941 fu accusato di propaganda antisovietica, arrestato e condannato a 10 anni di prigionia.
Trasferito presso una colonia correzionale nella Russia meridionale, scrisse diverse opere per chitarra a 7 corde tra le quali Danse acrobatique e Sonata n.2 chiamata Grande Guerra Patriottica (denominazione sovietica della Seconda Guerra Mondiale); rilasciato nel 1951, l’autorità sovietica respinse la sua richiesta di pensione, finì i suoi giorni ospite in una Casa per anziani ad Armavir.
Paul Marcel Rusakov (nell’immagine) nacque a Marsiglia nel 1908 da immigrati ebrei di Rostov-na-Donu espulsi dalla madrepatria poiché ritenuti inaffidabili, la sua famiglia si trasferì nuovamente in URSS per partecipare alla propaganda sovietica; studiò pianoforte e composizione presso il Conservatorio di Leningrado, nel 1925 mise in musica poesie di Alexander Blok e Vladimir Mayakovski.
Nel febbraio 1937 fu arrestato con l’accusa di appartenere a una organizzazione antisovietica e condannato alla fucilazione, pena commutata in 10 anni di prigione che scontò nel Gulag K-231 presso Kirov; ivi allestì sessioni di teatro musicale ma tentò più volte il suicidio.
Rilasciato nel 1947, lavorò come direttore musicale del Circo di Leningrado; morì nel 1973.
Roman Haubenstock-Ramati studiò musicologia e filosofia nella sua città natale a Cracovia, studiò composizione con Józef Koffler a Leopoli; in seguito all’occupazione tedesca della Polonia nel 1939, fuggì con la sua famiglia a Leopoli, incorporata nell’Ucraina in base al patto Molotov-Ribbentrop.
Nel 1941, poco prima dell’operazione Barbarossa, fu arrestato dalle truppe sovietiche con l’accusa di spionaggio in ragione del suo multilinguismo e trasferito a Tomsk; arruolato nel 2. Korpus Polski agli ordini di Władysław Anders (unità dipendente dal governo polacco in esilio e inquadrata nelle forze armate britanniche), si trasferì nella Palestina Mandataria Britannica.
Tornato a Cracovia dopo la Guerra, nel 1950 emigrò in Israele, nel 1957 si trasferì a Vienna e assunse l’incarico di redattore presso la Universal Edition; dal 1973 al 1989 docente di composizione presso l’Hochschule für Musik und darstellende Kunst di Vienna, morì nel marzo 1994.
Occorreranno decenni di studio e approfondimento per mappare l’intera fenomenologia musicale concentrazionaria scaturita dai due maggiori totalitarismi del Novecento; tale ricerca ha tuttavia il pregio di solidificare e rendere definitivamente visibili e fruibili migliaia di musicisti e le loro opere.
Recuperare questa musica consente di riportare nel cuore dell’Europa parole, immagini, suoni e idee centrifugate dalla Storia del Novecento a causa di contesti bellici e deportatorii maturati dal 1933 al 1953 che ci alienarono da opere di incommensurabile valore e da musicisti che appartengono alla Storia europea nella sua declinazione continentale, mediterranea, transasiatica.
La loro musica ci appartiene a prescindere che sia stata scritta nel Ghetto di Shanghai, nelle miniere di Magadan, nel girone infernale di Janowska o nei Campi di prigionia britannica alle pendici dell’Himalaya; come scrisse Susanne Ruth Klüger, sopravvissuta a Birkenau, “qualunque cosa si possa pensare, io non vengo da Auschwitz; io sono di Vienna”.
“Io non vengo da Auschwitz; io sono di Vienna”; scolpiremo all’infinito questo versetto neobiblico sul marmo della Storia contemporanea.
La parola crea l’immagine, si solidifica in essa; il suono crea sia la parola che l’immagine, connette l’una e l’altra al genere umano, alle future generazioni, ai mondi superiori.
L’Arte dei suoni si fa letteratura e, se quest’Arte porta con sé un enorme carico di sofferenza, diventa storia di uomini e idee; ciò è esattamente la letteratura musicale concentrazionaria.

Francesco Lotoro

(10 febbraio 2021)