Quelle parole
che generano violenza
Difendiamo insieme il futuro
Sempre più spesso purtroppo abbiamo notizia di inquietanti episodi che mostrano personaggi pubblici, alcuni anche con incarichi istituzionali, abbandonarsi a gesti e affermazioni che si richiamano a temi e simboli dell’antisemitismo, all’apologia del fascismo o alla banalizzazione del ricordo della Shoah.
Alcuni giorni fa un noto giornalista, nel corso di un dibattito televisivo, veniva interpellato dalla conduttrice su chi avrebbe indicato quale futuro capo del governo; ritenendo – così a suo dire – la domanda inopportuna, in quanto l’incarico era già stato assegnato, rispondeva: “Hitler”. Successivamente motivava l’uscita come una risposta data per scherzo. Su questo episodio non è possibile far scendere il velo del silenzio.
È necessario innanzitutto ricordare che la violenza si manifesta non solo con le azioni, ma anche con le parole e che d’altra parte la violenza verbale non viene consumata solo con esplicite espressioni aggressive ma altresì con affermazioni che ledono sentimenti profondi e condivisi, fatto tanto più grave quando colpisce una moltitudine di persone: il contesto di battuta scherzosa in cui è stato citato il nome del dittatore nazista, alle cui responsabilità sono associati milioni di morti e indicibili sofferenze, conferisce il carattere di esecrabile violenza verbale, perpetrata non solo nei confronti di tutti coloro che sono stati colpiti dalla tragedia della Shoah ma in assoluto nei confronti della maggior parte delle persone civili alle quali, io credo, non possa che apparire ripugnante utilizzare il nome di quel personaggio come spiritosa boutade. Il problema però non riguarda solo sentimenti ed emozioni; il modo di esprimersi manifestato nell’episodio in oggetto mette in discussione aspetti fondamentali della nostra coscienza e della nostra civiltà. Ritengo utile a questo proposito ricordare un passo dei Salmi (34,15) che suona “Allontanati dal male e opera il bene, cerca la pace e perseguila”; il percorso di vita consigliato dal testo biblico parte dalla capacità di individuare gli elementi negativi da cui prendere le distanze per poi costruire in positivo. È necessario prima di tutto identificare il male che ripudiamo per procedere al passo successivo, scegliere il bene, che è cosa più difficile, lo è sul piano individuale e, a maggior ragione, come ben sappiamo, è complicato a livello collettivo identificare valori e progetti condivisi per il bene della società. Se poi qualcuno, con il ricorso allo scherzo improprio, all’ironia fuori luogo, contribuisce a confondere, ad annacquare anche la definizione del male, dobbiamo stare molto attenti, perché quelle battute, quei motteggi rischiano di costarci caro, rischiano, con il tempo, di farci perdere di vista ciò che costituisce elemento essenziale di comune identità ovvero le espressioni più aberranti dell’uomo che si sono palesate nella Shoah; ma a quel punto, quando avessimo smarrito la coscienza nitida e precisa di cosa ci siamo lasciati alle spalle, quando non esistesse più la concezione chiara di un male assoluto da cui tenersi a distanza, come e quando mai la società potrebbe trovare percorsi condivisi su cui progettare il proprio futuro?
Le preoccupazioni che si accompagnano a questo e ad altri gravi episodi di questo genere non sono purtroppo esagerate; si tratti di ignoranza o di inadeguatezza al ruolo, risulta sempre più spesso, proprio da parte di chi occupa ruoli di rappresentanza e pubblica responsabilità, grave mancanza di sensibilità e vero e proprio dispregio nei confronti di quei valori che dovrebbero essere elemento di coesione. Sono come picconate che distruggono le fondamenta dell’edificio in cui dovremmo convivere.
La Torah ci insegna alcune cose interessanti riguardo ai giudici e a quanti vanno a svolgere ruoli di leader. A parte le qualità e competenze di carattere religioso devono infatti essere persone di valore per conoscenze e capacità intellettuali e virtù morali; inoltre i Maestri d’Israele (Talmud B. Sanhedrin 7b) paragonano ad un vero e proprio atto di idolatria il comportamento di colui il quale, avendo per questo uno specifico ruolo, consenta ad un incapace di adire ad una funzione per la quale non possiede le necessarie qualità e competenze. Il paragone ci rappresenta l’incuria nell’attribuzione di ruoli di pubblica responsabilità come comportamento tipico dell’idolatria, ovvero come una scelta vana e ingannevole che impedisce di riconoscere i valori della verità e della giustizia. Sarebbe utile che questi insegnamenti giungessero alle orecchie di chi di competenza prima che le picconate arrechino danni irreparabili.
Rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova e assessore al Culto UCEI
(11 febbraio 2021)