Spuntino – Giovani promesse

La parashà di questa settimana, Mishpatìm, che segue quella del Decalogo, è ricca di precetti (cinquantatré su un totale di 613). Si tratta soprattutto di norme (Mishpatìm, appunto) di relazione con il prossimo. La prima nell’ordine è l’obbligo di restituire la libertà a uno schiavo ebreo (“‘eved ‘ivrì”) al settimo anno (Es. 21:2). Non entriamo nel merito del significato della parola “‘eved”. Ci limitiamo ad osservare che il vocabolo è ampiamente usato per enfatizzare la piccolezza dell’uomo rispetto a D-o (per esempio Mosè è chiamato “‘eved HaShem” in Deut. 34:5) e, ancora oggi, per esprimere riverente disponibilità in prima persona. La cosa strana è che il precetto in questione sarebbe entrato in vigore solo quarant’anni dopo, con l’insediamento del popolo ebraico in Terra di Israele. Perché allora registrarlo con tanto anticipo? In realtà l’Haftarà sembra collocare questa regola anteriormente all’uscita dall’Egitto (Geremia 34:13-14). Il Talmud Yerushalmi (Rosh HaShanà 3:5) la posiziona addirittura prima delle dieci piaghe. Non a caso. Solo uno schiavo può comprendere la durezza della schiavitù ed apprezzarne intimamente la cessazione. La ricettività nei confronti di una mitzvà può essere catalizzata e mantenersi per generazioni solo se accompagnata dall’entusiasmo derivante da un beneficio intrinseco. In quest’ottica l’osservanza delle mitzvot non può esaurirsi con l’azione. Se vogliamo insegnarle ai nostri figli dobbiamo accettarle e metterle in pratica con la stessa predisposizione dimostrata dai nostri padri al momento del dono della Torà. Verso la fine della parashà Mosè scende dal monte per trasmettere la Legge al popolo che, all’unisono, dichiara il suo impegno a seguirla (Es. 24:3). Mosè scrive tutte le parole ricevute dall’Alto e subito dopo coinvolge i “na’arei benei Yisrael” (= i giovani — i primogeniti, secondo Rashì – dei Figli di Israele) affinché eseguano dei sacrifici (Es. 24:5). La parola “na’arei” può essere fuorviante (indica immaturità — piccolezza, secondo Rashì, nel contesto talmudico riportato più avanti) per chi non comprende la centralità dei più piccoli in un nucleo societario. La Ghemarà (TB Meghillà 9a) riferisce che il Re Talmi (Tolomeo II in base alla Lettera di Aristea) ordinò a settantadue saggi di trascrivere la Torà, ciascuno per conto suo. Guidati da ispirazione divina essi produssero separatamente settantadue edizioni identiche, compresa una dozzina di modifiche al testo originale. Uno degli emendamenti riguarda proprio il versetto in questione: invece di “na’arei” tutti quanti scrissero “zaatutei.” I due termini hanno un significato analogo ma il secondo, “zaatutei,” ha un’accezione positiva, “di importanza” (secondo Rashì). Il motivo di questi ritocchi era che i 72 saggi volevano evitare che il testo originale venisse interpretato erroneamente. Nello specifico, leggendo “na’arei,” si potrebbe pensare che Mosè avesse incaricato persone di poco conto (così erano i giovani secondo la cultura ellenistica) per accogliere la Presenza Divina. Invece la chiave di lettura ebraica di “na’arei” non è affatto degradante, al contrario, vuole mettere in evidenza il ruolo fondamentale dell’educazione dei bambini, puri e senza peccato, alla Torà. Mosè aveva detto al faraone: “ce ne andremo con i nostri giovani e con i nostri anziani” (“… bi-n’areinu u-vi-zkeneinu” Es. 10:9). Non serve avere i saggi se si lasciano indietro i più piccoli.

Raphael Barki