Il deserto
“Il deserto rifugge dal contingente, niente si frappone tra lo sguardo dell’uomo e l’immagine delle verità essenziali: nella nudità perfetta, D-o è visibile a occhio nudo. Non c’è da meravigliarsi che il monoteismo sia nato qui: per riempire il vuoto immenso era necessaria un’immensa presenza. Il roveto ardente non è il miraggio di una immaginazione esaltata: è la quantità di incandescenza necessaria perché D-o si manifesti; D-o si lascia vedere solo nelle zone calde, là dove il calore torrido dell’aria esalta l’ardore dello spirito. Ma una volta rivelatosi, presto diventa il padrone della terra e dei cieli. Come potrebbe legare Egli il suo destino allo spazio limitato di una città, nella mente di uomini [i nomadi] che appunto non sono di nessun luogo?
È dal deserto che viene al nomade questa consuetudine di famigliarità con l’assoluto – il deserto che unisce gli uomini attraverso spazi infiniti. […] I popoli stanziali spingono il loro attaccamento a derivare dalla loro terra il proprio nome e si chiamano allora Delamare o Southend, mentre gli altri si chiamano sotto qualunque cielo Biska figlio di Amayas. Di generazione in generazione il nomade conserva nella sua memoria lunghi rosari di genealogie: come potrebbe altrimenti distinguersi dagli altri questo eterno passante? […]
Per i pastori erranti l’universalismo non è una scelta casuale, è una vocazione. Le migrazioni bibliche non sono un errore (sia pure prestigioso) della storia, sono la legge stessa del deserto.”
Queste parole sono tratte da “Tenéré atavique”, un breve saggio dello scrittore e antropologo cabilo Mouloud Mammeri (1917-1989) contenuto nella raccolta “Escales”. Leggendo Shemot e il peregrinare degli ebrei nel deserto ho trovato questa lettura molto evocativa. Il deserto così, con tutte le sue avversità, può essere compreso non solo come un passaggio, ma come mezzo necessario per la formazione dell’ethos di popoli che sono rimasti o che furono in origine nomadici.
Francesco Moises Bassano